cristina muntoni, la pasta sarda

STORIA E MAGIA DELLA PASTA SARDA

ARTE IN CUCINA

Dalla pasta tradizionale sarda alla storia della sacralità femminile. Mitologia, riti e storia del saper fare e dell’ingegno delle donne

L’istante in cui la gestualità ritmica delle mani trasforma ingredienti semplici come semola e acqua nello strabiliante tessuto trasparente di su filindeu o nelle spirali affusolate degli Andarinos, si ha la percezione esatta che per creare le paste tradizionali sarde non si tratti semplicemente di seguire una ricetta, ma di compiere un atto che appartiene alla dimensione del sacro.

In Sardegna, i più spettacolari esempi di arte culinaria, dalla panificazione alle paste e i dolci rituali delle feste, sono espressione della potente maestria e creatività femminile. Ѐ sbalorditivo come, anche nelle case più povere, le donne siano sempre state in grado di realizzare con le loro mani veri e propri gioielli di grano di una ricercatezza e una magnificenza estetica degna di una corte reale. Il riconoscimento del valore di queste competenze sposta dalla dimensione del quotidiano a quella culturale una tradizione che, da donna a donna, ha continuato a trasmettersi per secoli e, forse, per millenni.

Assistere alla realizzazione di paste sarde significa partecipare a un atto rituale ed è col racconto di questa sacralità che sabato, alla libreria Dessì di Sassari, ho accompagnato in una conferenza esperienziale la dimostrazione di Claudia Casu, assieme alla giornalista de La Repubblica Cristina Nadotti che ha toccato gli aspetti sociali e nutrizionali di questo alimento prezioso. Nata e cresciuta a Sassari, Claudia vive a Tokyo dove, con la sua scuola di cucina Sardegna Cooking Studio, insegna ai giapponesi la tradizione culinaria dell’isola. L’incontro sassarese è stato il fulcro di Carrelas – Le vie del gusto, una manifestazione per la valorizzazione della cultura del cibo a cura de L’orata spensierata di Cristiana Grassi. L’edizione di quest’anno è stata dedicata alla tappa italiana di Pastas Antígas de Sardigna, un progetto di Claudia Casu per la divulgazione delle paste antiche sarde nel mondo.

L’incredibile varietà di paste che si può realizzare partendo solo da semola, acqua e sale, sembra frutto di un incantesimo. «Continuo a ricevere messaggi e richieste, letteralmente da tutto il mondo, affinché io sveli questo famigerato segreto – racconta Claudia - Quando rispondo che si tratta di conoscenza della semola di grano duro, amore per le tradizioni, rispetto per le proprie origini, impegno e fatica e tanti anni di studi, ecco che le persone vanno via sdegnate, altre depongono le speranze e solo pochissime comprendono il vero senso delle mie parole. Io non sono in grado di insegnare a nessuno la curiosità, la gioia del percorso, la frustrazione nel capire di non aver capito e la bellezza nel riprendere i fili di un fallimento fino ad ottenere la forma desiderata».

Ciò che distingue queste paste rare, oltre alla loro bellezza e l’identità culturale che tramandano, è che si possono realizzare solo a mano. Nessuna macchina può sostituire quella maestria e, anche imparando la tecnica, niente di questo si crea se non c’è alla base un amore incondizionato e puro verso questa tradizione, se non c’è una totale fusione tra il lavoro manuale e questa miscela alchemica di grano e acqua che solo un atto rituale che definirei magico può riuscire a trasformare in cibo divino. Le paste antiche insegnano la differenza tra la conoscenza e la comprensione. Non basta conoscere le regole del fare. Bisogna com-prendere, cogliere l’insieme e farlo proprio divenendo parte di esso, essere “con” esso. Non si può avere scissione tra sé e l’impasto per creare su filindeu, ad esempio. La danza ritmica delle mani produce la pasta tessuta solo quando si diventa tutt’uno con essa. Non è un caso che solo pochissime persone al mondo siano in grado di crearlo. Così come non credo sia un caso che sia proprio da un impasto divino che sarebbe nato il genere umano, secondo la Bibbia. E lo stato divino dell’impasto da cui nascono le paste sarde sembra essere raccontato anche da molti elementi legati alla loro creazione. Le trame sottili dei fili di pasta del filindeu per essere asciugate vengono adagiate su un ripiano tondo di asfodelo, su fundu. L'asfodelo è una pianta che ripete la geometria sacra del Fiore della vita. Il suo nome deriva dal greco asphódelos, ovvero “a” (alfa privativo, non), “spodos” (cenere) ed “elos” (basso), quindi, letteralmente, luogo in basso senza cenere, infatti resiste al fuoco e rappresenta ciò che è destinato a non morire. Per questo si offrivano corone di fiori di questa pianta alla Dea Persefone, regina ctonia degli inferi. Su fundu di asfodelo, tondo come il simbolo della ciclicità della vita al centro del culto della Dea Madre, è solo uno degli esempi di quanto la sacralità si unisca all’ingegno espresso dalle donne nella creazione di strumenti utili a valorizzare e agevolare la loro capacità creativa in cucina. Il nutrimento è sempre stato un ambito in cui il fare femminile ha espresso il suo ingegno, la sua funzione sacrale nel mondo e la sua maestria. Gli studi archeologici ed etnografici dimostrano che le donne sono artefici della produzione delle ceramiche destinate a contenere e manipolare il cibo. I contenitori di ceramica sono frutto di una concatenazione di gesti e conoscenze tecniche apprese e trasmesse. I simboli usati per decorarle completano la trasmissione di un sapere in cui conoscenze tecniche, tradizioni alimentari e identità culturale si intrecciano.
Storia e Magia della Pasta Sarda Andarinos - Fotografati da Claudia Casu per Sardegna Cooking Studio Per l’antropologo Claude Lévi-Strauss la cottura marca simbolicamente una transizione sociale. Mentre alimentarsi di cibi crudi è l’abitudine dell’origine dell’umanità, la lavorazione degli stessi, con la cottura in particolare, implica un passaggio a un tempo culturale e sociale. Le donne, con la loro maestria e il loro ingegno, diventano protagoniste del passaggio di trasformazione del cibo da elemento per la sopravvivenza a elemento rituale e cultuale, oggetto e soggetto dell’evoluzione umana.

Come sottolinea Assunta Dorgali in Ruolo e saperi della donna nella realtà sarda tradizionale, l’etica del lavoro ben fatto costruisce l’identità femminile nell’Isola. Le donne che sapevano svolgere al meglio ciò che era il risultato di un intreccio tra educazione ed esperienza ricevevano una qualifica sociale, erano apprezzate da donne e uomini. Questa valenza sociale rafforzava il tramandare la tradizione e le regole attraverso il linguaggio verbale e l’osservazione: desiderose di essere apprezzate cercavano di imparare e di fare al meglio.

Il padre gesuita Antonio Bresciani nel 1872 paragonò l’orizzonte etico e culturale delle donne sarde a quello della Grecia omerica proprio perché panificavano, tessevano e curavano la casa come uno spazio sacro.

Anche nei testi sacri di tutto il mondo l’alimentazione diventa un rito, un modo di essere e di agire sacralmente, uno strumento di perfezione: non più soltanto un modo di sopravvivenza e una necessità biologica, ma un sistema di affermazione culturale. Quello che si può e quello che non si può mangiare diventano culto. Il primo peccato nella Bibbia è mangiare un cibo proibito, un cibo non a caso simbolicamente legato alla conoscenza e al femminile.

Le donne diventano depositarie elettive della preparazione del cibo e quindi detentrici della conoscenza cultuale, rituale, sacrale e culturale legata ad esso.

Esisteva comunque una forte differenza tra il cucinare nel quotidiano per necessità e sopravvivenza e il farlo per la bellezza nelle feste. Le lorighittas di Morgongiori sono destinate alla festa di Ognisanti, gli andarinos di Usini alla festa del 8 settembre, i maccarones a ferritu alla festa di San Giovanni del 24 giugno, a Ferragosto e alla festa della Madonna del Seunis a Thiesi.
Silvia Alessi, SKIN PROJECT al TEN di Nuoro La mostra SKIN PROJECT all'interno della galleria del TEN a Nuoro Facendo il pane rituale, i dolci e la pasta della festa le donne hanno cadenzato il tempo, distinguendo quello ordinario da quello festivo. Il cibo diventa mezzo di trasmissione culturale e, con la sua bellezza, si trasforma in arte plastica in cui si esprime l’identità femminile, così come la tessitura. Entrambe le arti, quella tessile e quella del nutrimento attraverso la lievitazione, secondo la leggenda sono saperi trasferiti dalle Janas. Queste figure, che il premio Nobel Grazia Deledda descrive come “piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro”, io credo conservino la memoria delle antiche sacerdotesse del culto della Dea. Il loro nome potrebbe essere il declassamento della Dea Diana che col cristianesimo divenne creatura oscura, e il suo culto venne associato al male per demonizzarlo. Forse, conservato col significato di fata, il suo nome è stato salvato proprio perché associato al mondo del fiabesco e quindi considerato innocuo.

Proprio come le janas che uniscono il mondo materiale e del quotidiano - legato alla filatura e al contatto con la farina e il cibo - a quello sacro e divino, queste figure che raccontano la nostra identità ci lasciano il mistero se siano state rappresentate delle Dee magiche e sacre oppure delle donne. Ed è come se il ricordo fiabesco di esse celebrasse la memoria di tutte le donne che, da tempi immemorabili, tramandano da generazione a generazione la sapienza e il valore simbolico dei gesti rituali con cui creano manufatti della tradizione.

Oppure è possibile che le Janas siano entrambe le cose perché, anche se lo abbiamo dimenticato, è tempo di ricordare che essere donna significava incarnare una Dea.



Photo Cover Cristiana Grassi per L'Orata Spensierata

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