Valeria Pecora Schirru

MIA NONNA

I RACCONTI DI VALERIA PECORA SCHIRRU

Abbiamo chiesto all'autrice di Mimma di regalarci un suo racconto. Qualche giorno più tardi la risposta non tarda ad arrivare. Una mail: «Stanotte ho sognato mia nonna. Fuori è venuto questo. Valeria»

Si ostinava a prendere posto nel piccolo scranno, fuori, in mezzo ai gerani arancioni, rossi e alle vibrazioni incessanti delle vespe intorno. Amava i fiori. Io li guardavo rovesciarsi dentro ai vasi come fragili arcobaleni di foglie e petali, nel cortile invecchiato dal cemento. Le piaceva curare l’euforbia. Piante con una miriade di spine che mi pungevano ma piene di boccioli dal colore rosso accecante, come il sangue. Se avesse scelto la sedia da adulta mi avrebbe sovrastata in altezza e sguardi ma lei preferiva tenere la stessa traiettoria occupata dal mio corpo di bambina.

Il gatto si strusciava sulle sue gambe, gonfie come pagnotte, e per soggiogarlo afferrava la scopa e gliela passava sul dorso causando un ronfo ininterrotto di piacere. Nella posizione innaturale che assumeva con i piedi che spingevano per terra, se indossava i vestiti – e li portava sempre – potevo vedere anche un lembo delle sue mutande bianche e tra tutti, lei, la domenica quando andavamo a trovarla mi sembrava la persona più libera. Capace di rompere le regole inseguite per tutta la vita e che già allora mi imponevano anche se avevo solo sette anni:

- Tirati giù il vestito. Copriti. Stai seduta bene.

Da mia nonna ho imparato a cercare il contrario delle cose.
I fiori che pungono, la simmetria degli occhi, i vestiti da indossare senza regole. La casa dove trascorrevo l’ultimo giorno della settimana era grande, con stanze ormai vuote che in passato lei aveva riempito di materassi e di figli. Mia nonna sosteneva che l’amore vero si vede quando dormi e non da svegli. Dopo quasi sessant’anni di vita insieme, nove figli, un’isola abbandonata per adottarne un’altra il gesto più romantico che ricordava del marito non erano parole, amplessi, riti, celebrazioni ma il fatto che nel cuore della notte lui interrompesse il sonno per guardarla. Lei si svegliava all’improvviso come se quel sentimento cadesse addosso con la stessa forza delle onde che la facevano rotolare sulla spiaggia.

- Cosa ci fai sveglio?
- Ti guardo. Sei così bella mentre dormi.

Da mia nonna ho imparato a desiderare uomini insonni al mio fianco.
L’amore vero è quello che si mangia e non si dice. Mia nonna aspettava ogni estate per assaporare i fichi. L’albero centenario si trovava già lì prima che arrivassero e li aveva visti sposarsi, litigare, restare. Piangere e ridere. Prendere le decisioni difficili. Nel mese più pigro dell’anno lei in cortile attendeva l’arrivo di mio padre perché non poteva più farlo lui, suo marito, il suo agricoltore.

- Perché lo chiami contadino? – le domandavo sapendo che mio nonno aveva sempre lavorato in miniera.
- Per amare bisogna avere a che fare con la terra.

Arrivati porgeva al figlio la lunga canna per cogliere i fichi neri. Mio padre si arrampicava nei primi scalini della scala, appoggiata al tronco. Riempiva le buste di pane accartocciate. Mangiavamo in silenzio e i semi restavano infilati nei sorrisi. Mia nonna spariva, con il corpo c’era ma con l’anima raggiungeva il marito e scavava, piantava, fioriva, invocava la pioggia. E la vedevo cercare la dolcezza di quei frutti, il sapore delle notti, dei corpi umidi, dei sospiri frettolosi, dei vestiti caduti. Da mia nonna ho imparato a mangiare prima di fare l’amore. A gustare l’anima come un frutto che si scioglie.



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