Antonio Del Donno

LE PAROLE CHE HO DETTO

ARTE

In un mondo dell’arte che non è nuovo alla radicalità delle situazioni, la mostra di Antonio Del Donno ha la ventura di coincidere con una fase di stop e reset globale

C’è sempre una prima volta, anche se si hanno più di novanta primavere e si è un artista di lunghissimo corso e chiara fama con opere esposte in tutto il mondo (per la precisione in oltre quarantacinque città e settantadue sedi tra musei, gallerie e installazioni permanenti). C’è sempre una prima volta, insomma, anche se ci si chiama Antonio Del Donno (Benevento, classe 1927) e non si aveva ancora avuto occasione di presentare il proprio lavoro in Sardegna. Ma Le parole che ho detto , la personale a cura di Chiara Manca e Paolo Cortese inaugurata a inizio mese a Nuoro da MancaSpazio, è proprio questo: un debutto eccellente che, per una non prevedibile (e per tanti aspetti pessima) ironia della sorte, aggiunge rarità a rarità. La rarità dell’evento in sé – peraltro patrocinato dall’Archivio Del Donno nella persona di Alberto Molinari, che firma anche uno dei testi in catalogo – e la rarità dell’eventualità – una pandemia che, a sole 24 ore dall’apertura, ne ha reso impossibile la fruizione pubblica e dal vivo.

Così, al netto di quello che con molta indulgenza potrebbe quasi essere considerato un ulteriore intervento creativo da parte del destino, ecco che l’atto stesso di scriverne diventa ancora più importante e necessario: quale strumento migliore del linguaggio, in fondo, per provare a restituire il senso di un lavoro che prende le mosse proprio dal riconoscimento del potere di verba et scripta?

Il mondo dell’arte (e con esso il suo “sistema”) non è nuovo alla radicalità delle situazioni: il Novecento ha reso familiari estremismi, assurdità, paradossi e provocazioni di ogni genere, al punto che nessuno si meraviglierebbe più di un allestimento completamente vuoto di “cose” o di una mostra fitta di opere e di stimoli al punto da annullare quasi fisicamente la presenza dello spettatore o da inibirne la percezione. Tutto cambia, però, se la frustrazione delle aspettative non è contemplata nell’intenzione artistica e si rende necessario affidarsi solo a ciò che convenzionalmente si pone in termini di apparato, corollario e conseguenza di un’occasione espositiva: immagini di altre immagini, e – mai come in questo caso – parole su altre parole. Del Donno (e di ciò v’è certezza) non sarebbe in ogni caso soddisfatto di quei pochissimi occhi che durante la prudente apertura hanno potuto contemplare i lavori esposti: non per mera vanagloria numerica, s’intende, bensì perché il suo credo, da questo punto di vista, è sempre stato quello di “dare le perle (vale a dire l’arte) ai porci (vale a dire a chiunque)”, oltre ogni elitarismo e snobismo di settore.
Antonio Del Donno MANCASPAZIO - Installation view - Ph: Fiamma Di Crosta Chi ha frequentato MancaSpazio durante il suo primo anno di attività non farà fatica a interpretare Le parole che ho detto come terza tappa dopo due mostre particolarmente importanti presentate nel corso del 2019: E fu la notte – in cui una grande serigrafia di Robert Rauschenberg posta a “vegliare” sui dipinti di Laura Saddi e sulle sculture di Paolo Mura omaggiava il maestro della Pop Art e l’attività di ricerca portata avanti proprio a Nuoro dalla gallerista Sandra Piras con la Chironi 88 – e, prima ancora, Un mare di parole – ampia collettiva dedicata alla poesia visiva e ai libri oggetto con opere di Annalisa Alloatti, Mirella Bentivoglio, Tommaso Binga, Bruno Conte, Giovanni Fontana, Elisabetta Gut, Annalies Klophaus, Maria Lai, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Luciano Ori, Michele Perfetti, Lamberto Pignotti, Giovanna Sandri e Franca Sonnino. Una terza tappa, si diceva, per almeno due ragioni: da una parte perché Del Donno ha riconosciuto proprio nell’artista americano uno dei suoi “padrini” eccellenti, attribuendogli il merito di averlo reso consapevole del potere scioccante dell’azzardo; dall’altra perché anche nei suoi lavori (e quelli selezionati lo dichiarano a gran voce) l’evidenza grafica di tutto ciò che è lettera, grafema e lessema si pone in primo piano rispetto ai valori formali, cromatici e luministici che per tradizione hanno definito l’arte visiva nelle sue declinazioni più bidimensionali.

Certo, è innegabile: è proprio una piacevolissima impressione di colore e di luce quella che accoglie il visitatore al suo ingresso in galleria. Ma basta avvicinarsi un po’ di più a ciascuna delle ventiquattro opere esposte per rendersi conto di come tanta ricorrente brillantezza sia lo sfondo di un gioco di contrappunto (finanche didattico?) con i messaggi di volta in volta espressi a chiare lettere; messaggi che sono esortazioni («Amare amare amare»), preghiere («Gesù abbi misericordia di me») o che si rifanno direttamente alle Sacre Scritture in modo cifrato (la sigla «Gv. 15», con il rimando al Vangelo di Giovanni) oppure esplicito (citazioni come «Non siate conformati a questo mondo», tratta dalla Lettera ai Romani 12:2; «Beati i miti», «La verità è umiltà», «La felicità non consiste nell’accumulare tesori sulla terra», tratte dal Vangelo di Matteo). Nella misura del grande e del medio formato si susseguono timbri, interventi grafici e inserti cartacei che più che far veleggiare dolcemente il lettore tra le onde brillanti dei pigmenti vogliono provare a porsi come faro per una navigazione – quella della vita – che da sempre solca i flutti estremi della bonaccia e della tempesta. Un faro anche accecante, se si vuole, che sa trovare lo spettatore fermo proprio nel punto esatto in cui stava galleggiando o era convinto di avere gettato l’ancora; un faro che irradia e che denuda, accendendo insospettabili interruttori interiori.

Con il suo titolo estrapolato da una meravigliosa canzone scritta da Pacifico e cantata da Samuele Bersani (Le mie parole, 2002), la mostra di Antonio Del Donno ha la ventura di coincidere con una fase di stop e reset globale, in cui il senso dell’esistenza è messo in pericolo dallo smarrimento delle coordinate quotidiane più elementari e dalla rottura a catena di ogni conseguente equilibrio; un fenomeno che ha il suo cuore più nero nella paura della morte (ciò che un noto studioso avrebbe descritto nei termini di una “crisi della presenza”). Meditare sul senso di queste opere, così coincidenti con il loro messaggio, è per fortuna un esercizio che può essere fatto anche a distanza, nella duplice consapevolezza di come il linguaggio ci renda umani e l’arte contribuisca non poco a tenerci vivi. Alberto Molinari sa ciò che afferma quando in catalogo scrive che la stagione delle utopie e dei sogni di cambiamento del mondo è ormai giunta a termine e «resta sulla carta, a ragione, solo l’impronta di un compito rivoluzionario, nella declinazione di una tamponatura, come se la forza dirompente di alcune citazioni evangeliche, introdotte nei dipinti alla maniera di ammonimenti, si sia ridotta alla prassi burocratica di un timbro». Epperò, forse, proprio adesso c’è bisogno di ripensare a fondo tutti quei paradigmi che dopo uno shock di questa entità non potranno essere più gli stessi: chissà se ritroveremo beatitudine nella mitezza, se ci libereremo dei tesori invece che accanirci per accumularli e se obbediremo all’imperativo categorico dell’amore. Lo diremo più avanti, lo diremo con tempo. Ma proprio questo – è poco ma sicuro – non potranno dirlo solo le nostre parole.

CHI

Antonio Del Donno - Le Parole Che Ho Detto

DOVE

MANCASPAZIO - Via della Pietà n. 11, Nuoro

Photo cover Nelly Dietzel

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