Angelica Grivel

IL NASO MOBILE

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

Infine, mi risolvo a cedere: un aperitivo. La cauta proposta giunge da me. So già per certo che tentare il tempo di una cena implicherebbe troppe aspettative, con un conseguente spiacevole incrinarsi del cortese rapporto creatosi tra noi in queste ultime settimane.

Eppure, qualcosa in questa sera di novembre dal manto antracite presagisce tumulti, lo sento anche nel corpo: mi colpisce questo mio insolito verbigerare sulla soglia dell’epilettico, in saldo contrappunto con una fredda flemma nel respiro, che di norma non mi appartiene.

Con lo sguardo, cerco in lui un bruscolo d’incoraggiamento, quasi a segno di smentita rispetto ai miei tetri vaticini. Lui, inconsapevolmente, me lo offre: il sorriso mite, e quel dito indice guantato Armani, aperto in direzione di qualcosa, come a dirmi che abbiamo raggiunto la nostra meta di stasera.

Il locale da lui scelto per il nostro crepuscolo è un’ala spaziosa all’interno di un albergo che ha tutto l’aspetto di un altissimo cilindro vetrato e inox.
Sebbene il colore aranciato dell’ambiente non mi suggerisca particolare conforto, sono vittima di un’ammirata meraviglia: ogni fattezza del luogo è plasmata di accurato lusso, dal quale voglio trarre solo il fascino luminoso, perché non vedo ostentazione. Percepisco all'improvviso lo sgradevole rischio di apparire sprovveduta; riduco l'entusiasmo che fibrilla in me a muta interiezione.

Parrebbe il principio di una serata perfetta. Persino lui sembra aver attagliato i suoi modi in funzione di una buona riuscita dell'estetica dell'incontro. A dimostrarlo, il suo viso dai tratti puliti, costantemente teso al servizievole garbo, la magrezza discreta, l’orologio iconico eppure sobrio al polso.

I minuti sdrucciolano, mi accorgo che il mio parlar fluviale s'impone sin troppo dispotico sui suoi timidi silenzi, alternati a qualche intervento circospetto. Ho come l'infelice impressione di aver oppresso tutte le sue intenzioni emotive, a causa del mio timore di fronteggiare l'ardua, prossima, impellente eventualità di una sua esplicita dichiarazione, di cui in realtà riconosco ogni impulso.

Quel rosso mandarino nel mio bicchiere è la consistenza salata del succo di pomodoro, la mia scelta d’elezione per i miei facili sdegni gustativi.

Lui, dopo un’occhiata distratta al menu, in risposta alla gentile sollecitazione dell’inserviente, se la tenta con un cocktail fruttato, dall’aspetto gradevole, che lascia decantare a neppure metà bicchiere. Tutti quei salatini, generosamente distribuiti in graziosi vassoi sul nostro tavolino solo mezz’ora fa, vengono restituiti intatti, proprio come le sensazioni che traggo da questa serata: piatte e immobili. Non un moto emotivo, ahimè, nei confronti di questo ragazzo all’apparenza così impeccabile.

Colgo l’insistenza curiosa e non inquisitoria del suo sguardo sul mio viso; negli occhi, una richiesta: quella di andar via. Sembra non poterne più di questa formalità, intrisa nel posto in cui ci troviamo e nel mio implicitamente manifesto porre distanza, tematica e fisica, tra me e lui.

Giunge il conto, finalmente. Non ho motivo di nutrire il maligno sospetto per cui lui possa proporre una suddivisione della cifra di oggi: accorre con forbita puntualità, nell’estrarre dal suo discreto portafogli una banconota color giallo limone. Duecento euro fruscianti, forse troppo per due semplici bevande, ancorché nel più sofisticato degli ambienti. La cameriera oppone un’attitudine contratta e stizzita, un cenno di diniego placa fermamente le intenzioni di lui.

Sono in grado di avvertire su di me quell’inquietudine crescente sul suo volto, un’apprensione che affiora, attimo dopo attimo, in forma di macchie rosse che impattano sino alle tempie. E’ veemente e tremendo, lo slancio di tenera empatia sororale che provo per lui in questo momento: d’un tratto, i capelli ordinati e il lupetto collo alto di palese pregio volgono in diafana dissolvenza, per lasciare un frammento di vita al bambino che è stato, e che, forse, mai lo ha abbandonato. La supplica è vivida nei suoi occhi d’improvviso enormi e incerti, e io non posso proprio farne a meno, di accoglierla.

Senza cedere a nessuno il tempo per ampliare ulteriormente la voragine dell’imbarazzato disagio, tendo alla ragazza dall’agro corruccio una cianotica banconota da venti euro, verosimilmente più consona alla circostanza. Con un tramortito silenzio, lui ripone il denaro. Io, declino lo sguardo.

Dieci minuti più tardi, nell'abitacolo della sua utilitaria fiammante, ennesimo lusso da parte di genitori di un unico figlio, mi costringo a un ridente smorzare della fredda tensione che ci accompagna sin dalla nostra uscita dal locale. Lui non è mai stato un tipo particolarmente alacre nei contesti dialogici; ora, è per me arduo indurlo persino ad un gentile ascolto. L’istinto si fa ancora una volta dolce e triste, quasi vorrei domandargli un futile perdono per il mio sgorgare inesausto di frasi troppo logiche, per lui che vorrebbe probabilmente solo un abbraccio.

Sul viale a pochi metri da casa, lui tira il freno a mano con sproporzionato vigore. Altrettanto faccio io con le mie parole, che tuttavia lo seguono a frequenza più mogia, in fioco arresto. Ho temuto, e guardo ancora con rigida apprensione questo frammento di sera, perché so bene che la ragione di fondo delle sue premure risiede nell’istante in procinto di accadere.

Sospira rumorosamente, è percepibile quel suo sforzo di contenere il peso emotivo con un netto incurvarsi delle spalle acerbe, forgiate appena dalla manciata di mesi d’esordio in palestra. Ed è un fiotto: fiammeggia pulsante, condito di enfasi apodittiche di marcato stampo cinematografico, ma con uno strato epidermico, troppo evidente, di ingenua puerizia. Mi accartoccia il cuore, ma resisto, marmorea: una resa comporterebbe l’evoluzione in realtà di un’utopia di cui non voglio lui si nutra.

Noto soltanto adesso una buffa attitudine propria del suo viso: nell’articolare i sintagmi, il suo naso, di caratura importante pur se non troppo imponente, accenna costantemente al movimento autonomo. È come se fosse mobile: le cartilagini lunghe e magre che foderano la punta del naso e le narici seguono le inclinazioni delle sue labbra, ora arricciate, ora aperte.
Questa peculiarità non solo rettifica per sempre l’immagine che avevo registrato da tempo del suo volto, ma vieppiù rende vana la passione del suo manifesto esporsi sentimentale. La tensione a un fragoroso riso si fa sempre più ingestibile.

Scuoto i pensieri nel momento in cui incontro la sua dichiarazione in fiduciosa sospensione e scorgo il suo allarmante protendersi verso me; le labbra sottili sporgono in attesa di una risposta, per lui ovvia, a quanto pare. M’infastidisce questa bislacca baldanza nella sua attitudine improvvisamente non più troppo inarcata, senza dubbio non più irresoluta sull’intarsio dell’impaccio.

Mi addosso con decisione alla portiera. Ora, m’impongo un’onestà perspicua. Con fare cattedratico, gli racconto l’importanza del rispetto dei tempi di ciascuna individualità nell’incontro. Gli esprimo, qui con tutto il tenore di dolcezza di cui posso essere capace, il mio non corrispondere il suo sentimento. Infine, pongo in deciso conflitto la bellezza di un’armonia affine, che nasce da circostanze non imposte, a tutti i decori troppo azzimati del suo volermi.

Mi sento d’un tratto vittima di una pentita afflizione. Non avrei dovuto spingermi così freddamente sull’orlo del suo piccolo cuore, che ora è rattrappito, lo leggo nella collera inerte che esplica solo in quel suo frenetico tormentarsi le unghie e i polsi.
Irridere e svellere il suo impulso, neppure nelle mie più infide intenzioni; tuttavia, concedergli un'illusione non sarebbe stato corretto nei confronti del nostro rapporto in gemmazione.

Volgo a un silente congedo; come saluto, gli porgo un qualcosa di goffo che vorrebbe somigliare ad un abbraccio. Lui, nemmeno mostra segno di aver percepito il mio gesto.
Porto con me questo freddo sentore di sottile, rammaricato cafard. Un disappunto che mi scialba il cuore, quel cuore che ora precipita ad altezza di ombelico.

Lì permane, sino al giorno dopo, quando, in forma di messaggio scritto, giunge l'insospettabile rampogna da parte di sua madre. Una combinazione di accuse verso il mio relazionarmi troppo algido a lui e serpeggianti accenni al mio scellerato rifiuto, da lui raccontato, al suo ritorno a casa, in mozziconi di frasi dal timbro di ininterrotta geremiade.
Nel leggere, ecco che trascolorano subitanei tutti i rimorsi del bacio mancato: lo sgravio dell’aver scongiurato un qualsivoglia tipo di relazione con un soggetto così puerile e con una madre tanto esiziale offre slancio al cuore, che torna a rosseggiare tra le costole e il giugulo, in congestione da sollievo.



SCRIVI UN COMMENTO


FORSE POTREBBERO INTERESSARTI ANCHE