Angelica Grivel

SERRA

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

Serra. È il cognome di mia madre: cinque lettere che non permettono alla voce di pronunciarle attribuendo loro troppi effluvi di dolcezza

L’incontro centrale di quel doppio avvicendarsi di consonanti uguali, conferisce un’implicita autorevolezza che si fa imperativa quando la parola da muto pensiero diventa suono.

Serra. Ero ancora una ragazzina delle scuole medie quando colsi per la prima volta l’impellenza di possederlo, quel Serra, di farlo mio in termini quasi plastici: vederlo prender forma accanto all’ordinarietà storica del cognome paterno mi dava un’idea vivida di potere che si miscelava anche a una sorta di accezione di difesa. Come a dire che se qualcuno mi avesse conosciuta con addosso anche il cognome di mia madre, avrebbe di certo intuito di me la forte stirpe a cui mi aggrappavo, le persone, le storie e il fascino trascorsi, il tutto racchiuso in quella piccola parola, lo strascico di un nome: Serra.

Così, sancii con me stessa il patto per cui prima o poi nella vita avrei categoricamente aggiunto il cognome di mia madre a quello paterno.

Ahimè, non che sia stato un automatico esaudirsi della mia esigenza frettolosa di veder tutto concluso nell’immediato; sin da subito, infatti, quasi a sondare il grado della mia intraprendenza, una preliminare escursione sulle traiettorie di Internet mi illustra il teorico processo previsto per l’aggiunta del cognome: una sequenza di sconfinate gesta burocratiche con annessi in omaggio mesi di legittimi silenzi, visite affannose in Prefettura e possibili, allarmanti dilatazioni temporali che avrebbero scoraggiato persino la persona più volenterosa e propensa alla pazienza.

Ma la mattina è decisiva, lo intuisco anche solo dal sorriso che sembra porgermi il cielo, solcato a malapena da fili di nubi innocue, abbandonate alla spinta del maestrale che preferisco, insieme timido e forte. La mia corsa comincia alla volta della città alta, tra un bus dall’aria tristemente sgangherata e una fetta in salita secondo il ritmo marziale delle gambe. L’edificio della Prefettura si mostra in tutto il suo contegno palaziale,fronteggiato da alberi che mi danno l’impressione di esser scarni, esangui cittadini come il marciapiede che dà loro dimora. Torturo tra le dita questi moduli che ieri pomeriggio mi son premurata di stampare, compilare e firmare: semplici dati anagrafici, e una manciata di righe nelle quali delineare i motivi a giustificare la mia scelta di annessione del cognome della mamma al mio nome completo. Mi assegnano un numero e mi viene ingiunto qualche minuto di sosta. Attorno a me si annidano modici gruppi di persone.
Angelica Grivel ritratta da Giovanni Gastel Milano - Angelica Grivel Serra ritratta da Giovanni Gastel Non posso fare a meno di intravedere, a calzare molte paia di piedi presenti, troppe infradito, di quelle sintetiche da spiaggia, che la me specializzata nello scagliare critiche disdegna subito come indebite nel contesto. Poco prima che mi convochino dentro uno di quei misteriosi uffici, ho il tempo di correre con gli occhi sui visi di queste persone: ciascuna di loro sembra trascinare con sé il bagaglio di chissà quale stanchezza o delusione, a giudicare dalla stessa espressione amara, di sconfitta, che si aggira genericamente sui volti di tutti. L’ufficio accoglie me e i miei moduli, devo compilare una scheda, ma in un guizzo mi trovo già fuori dall’ingresso, solo per un arrivederci: tra qualche settimana sarò costretta a un ritorno. “Ti contattiamo noi – sentenzia il timbro piatto di una donna che ha tutto l’aspetto di una qualunque bidella di un liceo, con addosso su questo torace abbondante il pizzo vinaccia di una camicia che sa di centrotavola – dovrai ritirare il documento che ti daremo, per poi portarlo in Comune per l’affissione.”

Non oso domande e con obbedienza mi presto all’attesa di quel contatto promesso.

Procede precisamente come pronosticato: qualcuno mi chiama a distanza di tre settimane. Assetto un’altra mattina in funzione di una nuova visita in Prefettura: gli uffici chiudono al tassativo frantumarsi delle undici, dunque, anche per stavolta, dovrò sospirare la mia consueta nuotata mattutina trasferendola al sole del tramonto.

Oggi però è un brulicare caotico di fretta, di strida poco nitide, di passi a precipizio. Non una presenza ad abitare la portineria. Cerco una figura, un qualcuno che mi trasmetta la sensazione di essere in qualche modo padrone del luogo. Ma in risposta ai miei taciti interrogativi appare solo il costante traffico di certe figure femminili da un corridoio all’altro, tutte accomunate dal piglio acidulo e dalla forma quadrata dei corpi, bardate di occhiali dalle montature di una sconcertante fantasia animalier, la desolazione della cromatura dei rossetti ad incollare le loro labbra come timbri di ceralacca e ad accentuare la malinconia complessiva, gli sguardi che paiono rivolgersi solo nella direzione che perseguono, senza mostrare premura per quello che circola attorno a loro.

Dopo un pugno di minuti di cui non tengo il conteggio, sopraggiunge un uomo che, a guardarlo senza arrestarsi sul confine dell’uniforme da carabiniere che veste, conserva totalmente nel volto ancora i tratti insoluti del ragazzo che è, sia nel rosa gentile delle guance carnose che nel vivo grano dei capelli, in contrasto con la divisa che lo inamida e lo rende massiccio. Quel suo paio d’iridi ialine come bolle scruta le ansie che scompongono la faccia triangolare di una donna che mi precede e si esprime in un italiano approssimativo. Il carabiniere senza nome la rassicura e lei strascica i piedi con un saluto rassegnato sino all’uscita. Segue il mio, di turno, ed è proprio lui a indicarmi il luogo designato per l’appuntamento, uno studio oltre il piano ammezzato, dice. Lo fa con altrettanto garbo e sorrido in risposta. Raggiungo l’ufficio, un angolo che consta di una scrivania e due sedie e trabocca fogli, cartelle e penne da ogni anfratto. Ora, ad occuparsi della mia richiesta, non è più una bidella, ma una donna la cui struttura fisica si contiene in una esilità che sa già di inaridito e i capelli lunghi sino alle spalle dall’aria spezzata, di un nero stinto, striato di grigio in alcune ciocche. M’ispira simpatia: campeggia risate epidemiche e la voce accogliente stempera i disagi. Mentre mi porge un foglio, mi spiega con fare pragmatico che dovrò semplicemente portarlo in Comune e lasciarlo lì, affisso pubblicamente come un Wanted da Far West, per trenta giorni, e infine il Prefetto provvederà ad emanare il decreto di concessione all’aggiunta del cognome. Annuisco, prendo nota mentalmente.

“Sei stata brava, comunque, ad aver scelto di fare questo passo fondamentale – si congratula lei con ardore al momento del congedo , quasi protendendosi verso me, a stringermi la mano con entrambe le sue- e soprattutto di averlo portato a buon termine. È una roba così ardita, lenta e scoraggiante che impedisce alle persone di cogliere l’importanza di un atto del genere.”

Le sorrido. Non ho mai pensato che le rivoluzioni fossero quisquilie per signorine.

Sul bus diretto verso il Comune, l’entusiasmo ravvivato dalla prospettiva di quel Serra che si fa sempre più concreta, a fregiare la carta d’identità e tutti i miei documenti , un messaggio illumina d’improvviso il display. Non proviene da un mittente noto, non credo sia neppure un contatto salvato.

Yari Power, annuncia la chat di Instagram.

“E adesso che è, ‘sto Power?” penso, con un lampo di curiosità mista a un’inspiegabile stizza, quasi a identificare in questo nickname l’ennesimo profilo fantasma esperto nell’arte del copia e incolla dei più frusti messaggi di pubblicità indesiderata. Apro la chat con un’attitudine accidiosa e maldisposta in partenza. “So che non ci conosciamo, ma ho trovato il tuo profilo per caso qualche tempo fa e non ho esitato a seguirti. Ti trovo davvero interessante. Saranno le tue foto o le didascalie che scrivi, ma mi sembra che tu sia una di quelle persone che sanno quello che fanno, capaci di scriversi le proprie parti.” Drizzo le pupille contemporaneamente ad un’attenzione nuova che rimpiazza in un attimo l’indifferenza di pochi istanti fa. Forse non è un postino di spam, sentenzio, mentre visito la sua pagina per accertarmi della veridicità della sua persona. Piacevolmente interdetta dalla risonanza delle sue frasi, lo seguo. Scorro le foto. E poi, li vedo. Tra le molte immagini che costellano la galleria, compare di sguincio anche qualche foto di famiglia, a ritrarre lui accanto ai suoi genitori, una coppia che non riconosco subito, ma poi a guardarla meglio mi sembra di averla già vista, sbaglio o erano i personaggi del cuore della mia nonna ? Di colpo, si fende la coltre del mio ottundimento: proprio loro, Albano e Romina. Quelli di ‘Felicità’. Il ritornello annacqua la testa e lo stupore annienta momentaneamente qualsiasi altra emozione. Guardo ancora le fotografie, gli istanti rubati a quella quotidianità tanto popolare e intima al tempo stesso.

Solo adesso capisco la ragion d’essere di quel Power nel nickname del mittente.
Il cognome di sua madre.
Allora, gli rispondo.



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