Valeria Pecora Schirru

IL TERZO LUOGO

I RACCONTI DI VALERIA PECORA SCHIRRU

I lavoratori del terzo luogo erano consapevoli dei rischi che avrebbero dovuto affrontare ogni giorno. Elisa, una biondina minuta e determinata era una di loro.

Nominata anche lei da qualche settimana guerriera per difendere il loro lavoro. Quella mattina si preparò un’abbondante colazione e fece attenzione a non smagliare le calze. Sapeva che una volta entrata nell’edificio il sole avrebbe sottolineato tutto: il trucco sbavato, una maglietta infilata storta o uno sguardo particolarmente felice. In quel posto nessuno sapeva fingere ma si sentiva libero di essere quello che era esattamente. Ecco perché in tanti andavano lì. Soprattutto da quando vivere a Cagliari-Landia stava diventando difficile, a causa delle prepotenze del primo e del secondo luogo. Questi ultimi volevano obbligare quelli del terzo luogo ad essere come loro: andare di fretta, sempre di corsa, comprare, comprare, comprare, vedersi praticamente mai e stare sempre connessi ai cellulari. Invece nel terzo luogo i cellulari dovevano essere assolutamente silenziati. Era una delle poche ma basilari regole, per essere ammessi.

Elisa si fece forza guardandosi nello specchio e uscì di casa. In strada incontrò tanti membri del primo e del secondo luogo che la guardarono torvi, sghignazzandole davanti, fotografandola per poi postare quegli scatti sui social. Elisa prese a canticchiare la sua canzone preferita, non fece caso a loro. Una volta arrivata lì dove un tempo sorgeva il vecchio mercato civico, si mise a saltellare per farsi notare:

«Ciao Gerardo» disse Elisa, incrociando il suo collega all’ingresso. Gerardo aveva cinquant’anni e trattava Elisa come se fosse sua figlia.

«Mi pare di entrare in un altro mondo, ogni mattina» sospirò felice Gerardo. Credevano di attraversare la pancia di un pesce. Lavoravano all’interno di una grande struttura, un edificio accogliente e nuovo ma caldo, un posto che sapeva di casa. Una volta dentro si notavano i grandi vetri che creavano intrecci di luce e sembrava quasi facile toccare il cielo.

«Mettiamoci subito all’opera» disse Elisa aprendo la porta. Intanto Gerardo controllava la ludoteca, sistemava i libri appena arrivati negli scaffali e i quotidiani sul tavolo. Ecco che dopo pochi minuti apparve Carlo, il loro più affettuoso e puntuale frequentatore, come ogni mattina:

«Buongiorno Carlo, come stai? Password?» domandò Elisa.

«Buongiorno cara la mia guerriera» disse Carlo «Sto benissimo e la parola d’ordine è ***» e infine dispensando un lungo sorriso andò subito a prendere posto sulla poltrona preferita. Poi tuffò il naso nel giornale e cominciò ad imprecare, borbottare o sorridere compiaciuto, a seconda delle notizie che incontrava. A metà mattina si spostava nell’area ristoro accanto, per bere un caffè o mangiare.

Carlo faceva Martello di cognome, proprio come il famoso personaggio storico, aveva ottant’anni, un figlio, separato dalla moglie e un nipote ma li vedeva molto raramente. Loro infatti erano stati risucchiati dal secondo luogo quello degli impegni continui, dello stress, del tempo da consumare e dedicare via etere. Carlo li invitava spesso a pranzo, promettendo di cucinare la parmigiana di melanzane, il piatto forte dei tempi lontani, di quando erano ancora tutti uniti e la domenica aveva senso solamente se vissuta insieme.

«La prossima volta papà» rispondeva suo figlio Giuseppe durante le immancabili e frettolose telefonate del fine settimana. In sottofondo suo nipote Riccardo piagnucolava perché voleva stare con il nonno. Insomma, suo figlio non aveva tempo per lui. Il signor Martello era rimasto vedovo da qualche anno e la solitudine la sentiva ogni giorno, con morsi continui e dispettosi, ma da quando aveva scoperto quel posto, il terzo luogo, ad un tratto la sua vita sembrava migliore. Aveva conosciuto tanti bambini che i genitori portavano per farli divertire e lui era diventato il “nonno”, così lo chiamavano i più piccoli. In qualche modo riusciva a tenere a bada la nostalgia per il suo nipotino Riccardo. I piccoli si mettevano in cerchio e Carlo leggeva loro le favole:

«Allora bambini, tenetevi forte che si inizia: oggi vi leggo la storia del Principe felice».

«Sììì! Sììì!» rispondevano entusiasti i bambini. Il terzo luogo era uno scrigno che conteneva le paure, i desideri e i sogni di tutti . Ogni pomeriggio si presentava Bartolomeo, uno spilungone trentenne, timidissimo e con i brufoli ancora sulla faccia, che si rifugiava per cercare l’ispirazione e chino sul tavolo scriveva pagine su pagine per comporre una bellissima storia, e chissà, magari un giorno, sarebbe arrivato tra quei ripiani anche il suo libro.

Ogni mattina arrivavano gli studenti universitari a preparare i loro esami, quando le lezioni finivano, oppure tornavano per festeggiare il trenta e lode dedicandosi a serate di cinema e musica e chiedevano ad Elisa: «Quali titoli ci consigliate?».

«Guarda, abbiamo preso da poco questi film se volete fare un tuffo nel passato» sorrideva Elisa.

«Prendetevi questo bel concerto che vi carica» diceva Gerardo.

Il terzo luogo serviva anche a dare una mano di aiuto: arrivava chi era in difficoltà, chi aveva problemi di gioco oppure non riusciva a trovare un lavoro. Certo non si poteva risolvere tutto, ma lì dentro Elisa e Gerardo, insieme ad altri colleghi, psicologi e professionisti guerrieri organizzavano incontri e davano tutte le informazioni possibili.

Bisognava aprirlo a più persone il terzo luogo, per tenere vivi ancora gli sguardi, i giochi, le storie, la realtà favolosa chiamata umanità. Le persone per fortuna aumentavano perché spesso scappavano dal primo e dal secondo luogo di Cagliari-Landia dove alcuni volevano imporre le loro regole: la separazione tra i sessi, le religioni, il colore della pelle. Tutto l’opposto succedeva nel terzo luogo dove Gerardo ed Elisa ascoltavano e cercavano di aiutare chiunque ne avesse bisogno.

«Buongiorno, possiamo darvi una mano?» chiesero a due ragazzi arrivati lì perché da quel posto non sarebbero stati cacciati, così avevano sentito.

Si guardavano intorno smarriti quei due, avevano attraversato come disperati il mare più brutto, che diventa crudele quando lo cavalchi su una zattera, insieme ad altri disperati come te. Il mare più brutto è quello che vivi senza acqua, né cibo, con la morte che ti insegue a pochi centimetri, ma Mustafà e Amed ce l’avevano fatta a scampare a quell’inferno. Prigionieri a Cagliari-Landia, davano senso alle loro giornate frequentando il terzo luogo:

«Buongiorno Mustafà e Amed, come state? Password?».

«Buongiorno principessa, la password è ***» rispondevano. Gerardo aveva fatto vedere il film La vita è bella, per iniziare a masticare qualche termine di italiano. A loro erano rimaste impresse quelle due parole che sembravano produrre una musica quando le pronunciavano. Gerardo consigliava i libri più facili, ad esempio le favole di Esopo per familiarizzare con una lingua bella ma difficile.

Mustafà e Amed si sentivano a casa nel terzo luogo. Carlo si fermava con loro e spesso raccontava di quando l’avevano chiamato a fare la seconda guerra mondiale, ma lui si era rotto un braccio di proposito, che di ammazzare altri essere umani non ne voleva sapere.

Un pomeriggio Riccardo costrinse suo padre Giuseppe Martello a portarlo nel terzo luogo:

«Papà, dobbiamo andare assolutamente, mi serve per il compito di italiano, dobbiamo preparare una favola da recitare tutti insieme… e si può fare solo in quel posto».

«Va bene Riccardo, ti ci porto» si arrese il padre mentre rispondeva ad una e-mail di lavoro.

Dopo pranzo Riccardo e suo padre raggiunsero il terzo luogo. Come sempre Giuseppe Martello era attaccato al telefono a discutere con il suo capo e aprì la porta dell’edificio.

«Mi scusi signore, qui i telefoni sono ammessi ma silenziati» gli disse subito Elisa.

Allora Giuseppe chiuse la telefonata un po’ scocciato, e una volta messo dentro la borsa l’aggeggio infernale incrociò lo sguardo di suo padre, il signor Carlo seduto su una poltrona rossa, su cui spesso si addormentava e Gerardo prima di chiudere, andava a svegliarlo. Vide tanti piccoli dell’età del suo Riccardo pendere dalle labbra di suo padre che simulava voli d’areo con le mani, gorgogliava per riprodurre il suono della caffettiera oppure si trasformava nel temibile Mommotti. Vide se stesso, piccolino, tra le braccia di quell’uomo così grande. Sentì la mano di Riccardo staccarsi e la sua vocetta urlare:

«Nonno! Nonno!» e nonno Carlo andargli incontro, prenderlo tra le braccia e farlo volare come se fosse un’astronave di un altro mondo. Vide studenti immersi nei libri, uno spilungone sospirare e sognare, due ragazzi dalla pelle scura leggere Pinocchio.

Elisa vide Giuseppe emozionato, meravigliato e si avvicinò a lui:
«Signore mi scusi, mi dovrebbe dire la password per entrare qui…»

Giuseppe sollevò lo sguardo e lesse la frase scritta sopra un foglio all’ingresso:
«Qui vi prestiamo la cosa più importante: il tempo per sognare».

Sorrise all’improvviso e disse:
«Signorina, la password è: MEM».



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