NELLA TANA DEL LUPO

angelica grivel

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

Qualcuno ha promesso ad Angelica che potrebbe aiutarla nella pubblicazione del suo primo libro. Così lei prende il primo volo per raggiungere Umberto. Ma presto le cose si complicano: chi è davvero questa persona? Ma soprattutto, cosa vuole da Angelica?

Le ruote dell’aereo sobbalzano, come in un singulto velare, sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto di Milano. Non ho alcun volto amico al quale affidarmi. Solo una ragazza dagli occhi glaciali, con in bilico alle orecchie un paio di auricolari, come per distoglierla dalla realtà circostante.

Penso a come vorrei emularla, solo in questo momento, lei che sembra avere il cervello ammutolito e assorto, mentre il mio echeggia all’impazzata, in un cicaleccio incessante.

M’impongo di sollevarmi e scuotermi con vigore, medito e ragiono le mie future azioni. Ecco che riaffiorano, con una inspiegabile nostalgia, i premurosi moniti che mi hanno ingiunto entrambi i miei genitori poco prima della partenza; li sento rintoccare nervosamente, come se volessero comunicarmi qualcosa che, per adesso, sfiora solo il mio inconscio. Cerco di non attribuire loro l’importanza allarmante che parrebbero richiedere e mi occupo esclusivamente della concretezza, che gestisco più abilmente di quanto prevedessi in teoria.

Mi oriento verso la postazione taxi, sentendo all’improvviso dentro di me come il trillo di una sveglia. Lo allontano persino con un movimento continuo della mano, quasi a non volerlo percepire neppure sensorialmente. Questi allarmi. Salgo sul taxi al quale vengo, per così dire, destinata. Il cuore rallenta gradualmente il suo ciclo diastole sistole, la tensione dei nervi si allenta, il cervello si abbandona su un placido oceano di pensieri positivi. Tutto ciò che so e che riesco a ripetere a me stessa è che sono a Milano e ho viaggiato da sola, in totale autonomia.

A dieci minuti dalla “destinazione”, sino ad adesso mero concetto astratto, sento come se l’ombrello immaginario sopra la mia testa, ormai in sovraccarico, abbia deciso di abbandonarsi e di far crollare tutta l’acqua raccolta su di me, inzuppandomi del suo vischioso umido. La consapevolezza mi colma della sua gravità. Dove vado? Trascorrerò due giorni di seminario letterario con Umberto, sostando in casa sua. Chi è? D’impatto, non sono in grado di rispondere. È un amico? Non agisce proprio come tale, quindi direi di no. Non è stato di sicuro un compagno di vita di mia madre, perché entrambe, in totale, nella nostra esistenza, lo abbiamo conosciuto visivamente per tre ore e mezza circa.

È una persona. Non è una persona cara, ma rimane una persona, che da più di un anno a questa parte mi girandola attorno, circoscrivendo il mio territorio, solo talvolta entrandovi. Ora sono io a uscirne, per poter annusare, con la sua supervisione, il mondo che abita lui. Sono straordinariamente diffidente, all’improvviso. Un filo curiosa, nella mia circospezione. È il responsabile di una casa editrice indipendente e in questi due giorni analizzeremo le bozze che costituiscono l’ossatura e la sostanza del mio primo libro.

Nella via storica in cui abita, il sole rifugge. Troneggiano caseggiati di remota architettura che trasmettono un’idea di silenzio angusto e vapore scuro. Il mio trolley minuto, di un colore rosso vivido, in tale contesto, sembra risplendere di luce propria. Attendo impaziente e quasi stizzita quattro minuti prima che lui, finalmente, replichi al mio richiamo e schiuda il portone pesante. Mi aspetto d’imbattermi in lui all’ingresso, ma a degna accoglienza mi attendono solo cinque rampe di scale. In marmo di Carrara, per giunta, come specificherà lui compiaciuto solo dopo qualche ora.

Quando finalmente supero l’uscio del suo appartamento, sento le forze affievolirsi. Mi catapulta immediatamente nel suo universo. Ribadisce con stupore sincero, a giudicare dal suo timbro vocale roco eppure acuto, quanto mi trovi cresciuta rispetto al lontano sedicesimo compleanno, giorno in cui per la prima volta ci vedemmo. Mi sento fiacca e senza entusiasmi. Do fondo alle poche energie rimaste per dispensare sorrisi e ammiccamenti, mentre i neuroni elaborano una trattazione analitica sull’impressione che la sua struttura fisica genera in me.

Il viso volge al grifagno. Gli occhi, tondi come un mappamondo, dalla cornea più sporgente dell’ordinario, mi scrutano, vagamente limosi. La bocca tende definitivamente al cascante; se schiusa, assume la parvenza di una grande, vizza V, e rivela al suo interno una chiostra di denti che sono il frutto avariato di una vita corrosa dal fumo e da una perpetua discordia con lo spazzolino. Il naso, ingombrante e aquilino, sospira rumorosamente, e emette vapore fumogeno tramite le narici, quasi a somiglianza di un ippogrifo. Sul cranio, come drizzati da una scarica elettrica, gonfi ancorché radi cespi di capelli color stoppa penosamente terrea. E poi la fronte, spiovente groviglio di solchi, gibbosa come un tetto tegolato.

L’intento della mia visita è quello di lavorare alla fase di scarnificazione dagli sfarzi rococò di cui sovente la mia penna ama abbigliarsi, e che Umberto ha in abominio. Il mio primo libro è prossimo alla pubblicazione e l’ultima fase di editing è apicale. Ma lui non mostra la minima volontà di emendare le mie carenze, di progettare nuovi sperimentalismi linguistici, di elogiare certe mie piccole innovazioni.

Nonostante io tenti con ogni espediente di condurre il discorso sulle mie pagine, lui scrolla l’argomento, una mano a trattenere i capelli ispidi, l’altra salda sulla quarta sigaretta dal mio approdo qui. È al margine dell’inquietante, piuttosto, questo suo interesse nei confronti di ogni faccia - eccetto quella scrittoria - del prisma della mia esistenza. Ma lui non mostra quell’interesse genuino, che generalmente si accoglie con gratitudine e al quale si replica con la debita puntualità e garbo.

Il suo è un girarmi attorno frenetico, vorticoso e critico. Soffre di una sindrome di sconfinamento esacerbata: biasima ogni mia tradizione, scelta e norma di vita. Mi sento costantemente sotto il suo occhio provocatorio e ho come la percezione che ogni sua affermazione mi punga di un’accusa che non capisco. Non approva il mio spontaneo abbracciarmi al rito della Messa domenicale; non apprezza il mio orientamento non inerziale, ma vocazionale, verso lo studio della filosofia; mi ritiene prigioniera della relazione osmotica che mi tiene salda a mia madre e alle mie origini; trasalisce inorridito, nell’interpretare la mia istintiva ritrosia come una fatale inibizione degli istinti.

Risuona un orologio, in lontananza. Un quarto alle due. Umberto, cortese, assetta la tavola. Parrebbe un pranzo in mio onore, a giudicare dal suo adagiare galantemente, su due tovagliette di pregio, candide e orlate, due cocotte d’argento abbrunite dall’usura, ciascuna contenente straccetti di vitello con un contorno di radicchio. Come ornamento centrale, una candela, accesa, nonostante il giorno sia allo Zenith.

Le posate, anch’esse in argento, coronano il quadro di una apparente perfezione. In questo momento mi si commuove il cuore; mi trasmette una indicibile tenerezza questa sua attenta dedizione alla compiutezza formale. Manifesto la mia gratitudine con sinceri sguardi d’affetto e fiducia. Bruscamente, ogni mia benevolenza rovina.

Con una disinvoltura al limite dell’offensivo, Umberto s’insacca sulla poltroncina, vestito di solo pantalone in nobile lino canapa, stazzonato. Il mio viso, che riflette sempre i miei difficili gusti e i miei disgusti facili, stavolta, si corruga e si contorce plasticamente in un nodo di repulsione. Il seno più procace del mio; una gibigiana rifulgente da una pancia tesa a pelle di tamburo, con batuffoli di peli riccioli, distribuiti a chiazze di leopardo sul semiglobo; braccia in orgoglio muscolare.

E così, colui che con spavalda fierezza volentieri godeva nell’anteporre l’etichetta all’etica, mi siede di fronte, a tavola, a torso miseramente nudo. Gli intimo, con timbro stentoreo, di indossare, di grazia, una camicia. Lui, fa spallucce, dice “Ma no, dai, fa troppo caldo, e in casa mia voglio sentirmi libero.” Mi sento attonita e in imbarazzo. Immediatamente dopo pranzo, declino ogni sua proposta di lavoro, adducendo come alibi un principio di sinusite allergica.

Faccio subitaneo fagotto e anticipo il mio volo di ventiquattr'ore. Quel libro è tornato nel cassetto.


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