MY ENGLISH TEACHER

angelica grivel

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

“Dal mio punto di vista, Agnes era un esperimento, una sfida: un po’ come visitare l’oceano con un sottomarino. Credo che lei mi abbia conosciuta di gran lunga più profondamente di molti altri esseri umani nei quali io sia inciampata nel corso della mia storia”

Ricordo che fosse una giornata particolarmente calda. Agnes arrivò alla fine dell’agosto dei miei tredici anni, e l'offensiva canicolare era ansiogena, tuttavia mai quanto l'attesa di ciò che si accingeva a sopraggiungere. Percepivo ancora una certa patina salmastra, aderente all'epidermide, esito non precisamente gradevole di una fugace immersione nelle acque del mio mare. Ricordo che avessi assettato l'indispensabile su un tavolo ligneo circolare nel gazebo del giardino: un vecchio quaderno dalle poche pagine rimediato in una scatola di cereali, a guisa di accattivante omaggio, una penna verde ormai sul ciglio dell’esaurimento, e alcune matite temperate alla perfezione. Con tale esiguità di materiale, ritta sui piedi, aspettavo il primissimo impatto con Agnes, la futura, a me totalmente sconosciuta insegnante madrelingua inglese, non senza una specie di trepidazione apprensiva che mi afferrava lo sterno, facendolo turbinare in un prillo interiore. Ricordo che a combattere strenuamente per ottenerla fu mia madre, mentre mio padre sosteneva l'intenzione di iscrivermi canonicamente in una classica scuola di lingue, di quelle con l’insegna della Union Jack, dove avrei dovuto frequentare un corso verosimilmente volto soltanto agli esami finali di giugno. Mia madre voleva che padroneggiassi in scioltezza l'idioma. Trionfò.

Ricordo che il tempo dell'attesa fu inappuntabile: né così conciso da non concedermi il privilegio di elaborare congetture, né tanto dilatato da permettermi momenti di tedio. Quando l’imponente figura, eppure guardinga, si stagliò nel cancello del giardino, portando inevitabilmente con sé quell'attimo di diffidente primissimo incoccio, ero prontamente attiva. Agnes era di madre londinese, dunque perfettamente anglofona, ma nell’accento intensivo, aspro e battente, scontava un diverso retaggio antropologico. Infatti, l’altro ramo familiare e il luogo natio erano viennesi, e, dunque, inesorabilmente teutonici. Agnes portava i capelli in un groviglio incerto. Un’improbabile pinza leopardata a trattenere un serto decolorato, ibrido tra una treccia e uno chignon in equilibrio precario. Le linee munifiche del suo corpo erano contenute all'interno di una maglietta azzurro fiordaliso, con le gambe costrette in un paio di jeans basici. L'accostamento non era evidentemente frutto di una selezione acribica, piuttosto sembrava germogliare secondo un criterio decretato dalla più indifferente casualità.

La sua fronte umida, rorida di fatica, dimostrava che avesse percorso a passo di marcia l'intero tragitto della strada bianca verso la spiaggia che orla il giardino di casa mia.

Fu solo infine che notai un dettaglio che quasi cambiò la sua immagine complessiva: le sue fattezze di mezza età erano smentite dalla levigata perfezione delle mani, testimoni impeccabili dei suoi giovani trentacinque anni. Neanche un nodo alle giunture e tantomeno ombre livide di danza vascolare. In aggiunta, dieci petali perlacei a guarnire le estremità delle dita di quelle mani non affusolate, eppure dalla parvenza delicata. Calme e placide, le sue mani; le mie, in quel momento, un termitario impazzito.

Tutto quel suo subbuglio esteriore ispirava in me una sensazione rincuorante; Agnes non era surrettizia. Non aveva mai bisogno di rappresentarsi al meglio. Non ricordo che pochi lembi della lezione meramente 'tecnica'. In realtà, il solo proposito che pretendessi di raggiungere era quello di compiacere e sorprendere Agnes, con l'esibizione ostentata e originale di tutta la conoscenza dell'inglese da me acquisita sino a quel momento della mia piccina esistenza. Agnes, imperturbabile e ugualmente neutrale nel fronteggiare ora i miei goffi tentativi di acrobazie linguistiche, ora le mie inesattezze più o meno ingenue, non era impressionata né palesemente rapita da un’attitudine personale che sino ad allora mi aveva assicurato solo manifestazioni gloriose e plausi compiaciuti. Ricordo Agnes, che sin da principio adottò per me in quanto allieva e in quanto persona, un garbo riprensivo ma indulgente, mai severo.

Quella lezione d’esordio non fu altro che il primo, determinante segno dello squarciarsi di un guscio di gentile ma ferma formalità che avrebbe caratterizzato i primi mesi del mio rapporto con Agnes.

Trascorsi cinque anni sotto la sua vigile e cortesemente trattenuta sovrintendenza. Ai miei occhi contemporanei a quegli anni, il tempo trascorso con lei fu flemmatico e dilatato, non per via delle lezioni in quanto tali, bensì per la impegnata curiosità, da parte mia, nei confronti del suo essere. Dal mio punto di vista, Agnes era un esperimento, una sfida: un po’ come visitare l’oceano con un sottomarino.
Durante quel lustro, mi strinse complessivamente in una manciata di abbracci, diluiti nel corso degli anni. M’introdusse al suo Halloween, che in casa mia era occhieggiato con albagia ed esisteva solo in quanto concetto teorico di mero sguaiato folclore e occasione di stordimento. L’Halloween che Agnes portava con sé, viceversa, mi sorrideva conciliante, in un tripudio di canzoni, addobbi arancioni, dolciumi oltremodo zuccherosi, a richiamare teschi, zucche e spettri; io mi ci accostavo solo se accompagnata da lei, ed era sempre una festa.

Credo che lei mi abbia conosciuta di gran lunga più profondamente di molti altri esseri umani nei quali io sia inciampata nel corso della mia storia. La lezione era tutti i lunedì e venerdì, per due ore ciascuna. Non era semplice impresa, per me, apparire entusiasta tutti e ciascun incontro con Agnes: talvolta, mi stizziva la sua puntualità alle soglie dell’eccesso, o il suo pertinace somministrarmi quegli estenuanti e oziosi ‘tests’, che dovevo ripetere sino a quando non ne fossi satolla. Non vani, evidentemente: ancora mi riecheggiano. Eppure, lei sapeva leggermi. Non era mai invadente, ma in qualche modo io sapevo che lei fosse curiosa di me, mi poneva le domande esatte.

Un pomeriggio eccezionalmente procelloso di chissà quale anno vide Agnes approdare da me con la consueta andatura disadorna e il sorriso rassegnato di sempre. Viluppi di colossali nembi argentei e neri si azzuffavano come centauri, sospinti da un vento che sembrava scuro e visibile anch’esso, tanto era soverchiante sino all’apnea; sul mare, puntellato da iperboliche gocce di pioggia, incombeva un senso di terrore. Cagliari era vittima di un leggendario temporale. Agnes contemplava con gli occhi brillanti quella sorta di primitiva baruffa paesaggistica, come se non avesse mai assistito a uno spettacolo simile. Mi assegnò frettolosamente vari esercizi grammaticali, ma io, inesorabilmente assorta, gettavo lo sguardo sulla sua figura massiccia, e la vidi per la prima volta nell’atto di districare i capelli, lasciandoli liberi sulle spalle. E, come quella volta in cui vidi volare via, spazzato da una buriana, il velo della mia suora catechista, mi parve che fosse accafuto qualcosa di proibito e irreversibile. Mi venne da pensare che i capelli sciolti le attribuissero una strana parvenza femminile e dolce, lei che dolce, con me, lo divenne dopo quel pomeriggio.

Solo in un successivo attimo constatai che Agnes avesse slegato la sua sgangherata acconciatura per attutire la viscida e fredda sensazione dell’acqua piovana aderente alla testa. Non resistetti, e le chiesi se gradisse un asciugamano, un phon e un caffè caldo. Come prima reazione, Agnes oppose un rifiuto cordiale , ma dopo qualche minuto di mia accorata persuasione, accettò il phon. Solamente il phon. Lo accolse tra le dita lisce e pragmatiche con affetto grato, si asciugò con premura distratta la chioma corta, mentre mi parlava con un vago entusiasmo nella voce, e tornò alla lezione, ma non fu mai più la stessa: si era creata una complice intimità tra noi, che, ero certa, non si sarebbe mai più dissolta.
Mi sbagliavo.

In un soleggiato 19 maggio dell'ultimo anno, Agnes prese commiato, per non fare più ritorno. Ero preparata per un arrivederci; lei stessa mi ci aveva addestrata. Portò con sé i soliti dolciumi premio, perché non aveva altri strumenti per tradurre le carezze che non era in grado di darmi. Un’analfabeta sentimentale, con un cuore congestionato di tenerezza. Quello che lei intendeva e non esplicitò era in realtà uno strappo definitivo, un risoluto addio. Io, non lo seppi mai. Non avrebbe più risposto a nessun messaggio, a nessuna mail.
Agnes, sparì per sempre.

Angelica's cover courtesy of Stefania Paparelli

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