STEFANIA

isola delle storie

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

“Lei è un'artista, punto. Pioniera di uno stile fiabesco che, nella foto di moda, ha conquistato le pagine più patinate del globo”


Una di quelle porte vetrate, sì, che si aprono automaticamente, e che con il loro moto immediato sembrano regalare una sorta di spiffero di fresco.

Rimango interdetta per un istante: questo uscio a fotocellule produce uno straniante effetto Narnia che mi risucchia quasi mio malgrado. Beh, ormai sono qui; che altro fare, se non entrare con disinvoltura? Mi accingo ad una camminata in stile Valchiria sdegnosetta, con i miei tronchetti color avorio che con discreto successo tentano un misurato effetto slancio da quel metro e sessantacinque scarso che contiene la mia persona. Producono un suono tanto gradevole, quei tacchetti, come un ticchettio croccante: perciò, li calco sul terreno, quasi a sottolineare il mio ingresso, scuotendo la testa, con fare spocchioso, temo.

Una ragazza dall'aria garbata recide sul nascere le mie vanesie intenzioni, e, con una cortese rapidità, mi sfila il giubbino di finto pelo volpino, riponendolo in un armadio che prima non avevo notato. Da dove sia sbucato, non ne ho idea. È un anfratto bianco in un muro altrettanto bianco. Ma la ragazza sembra non aver tempo, mi distoglie dalle mie futili elucubrazioni sull'anta dell'armadio, e con un passo sveltissimo, quasi impossibile da seguire, mi conduce in un'ala più appartata rispetto alle altre.

La percepisco come una specie di postazione riservata solo per me, quasi personale. Siedo con evidente soddisfazione sulla poltroncina nera, e mi pavoneggio della mia situazione privilegiata, neanche fossi una sovrana assisa sul trono. Ed ecco che mi raggiunge proprio lui che ha assettato il progetto intero. Che tipo simpatico, penso.

Corre con quei suoi passi scattanti, quasi nevrotici, e lo accompagna una buffa pancia dalle fattezze di sfera. La barba scura ne svela la giovane età. Conversiamo amabilmente, mentre lui, con lo sguardo declinato sulla lunghezza piatta dei miei capelli, li districa con le dita, osserva ancora una volta la forma della mia testa. Tassonomico. Mi pare stia valutando come iniziare, traccheggia a lungo: d'altronde, l'incipit è pur sempre la parte più ardua. D'improvviso, scompare. Sfugge di nuovo al mio campo visivo.

Approfitto di questo spicchio di solitudine per saettare uno sguardo sul display del cellulare, ma non riesco ad identificare i mittenti degli svariati messaggi notificati, perché, rapidamente come si è dissolto, fa ritorno. Concentrato e severo. Gli offro un aperto sorriso, con le guance d'improvviso trascolorate dal terreo al carminio, come appena pizzicate, e lo sguardo lucido: la consapevolezza di essere stata scoperta in un atto un po' imbarazzante o inopportuno in un determinato momento. Sposto gli occhi da lui e intercetto un carrello di media grandezza al suo fianco. Con un filo di amarezza noto che sopra vi siano tanti contenitori dalla forma cilindrica: che si tratti di quegli spray che induriscono e impomatano i capelli in maniera esasperata, le lacche? Sì, temo di averci preso.

Non ho neppure il tempo materiale per salutare la geometria piana dei miei fili naturalmente a piombo che, come sotto l'enigmatico e abbacinante effetto di un arcano incantatore, di colpo assumono una tridimensionalità, un volume degno di una figura geometrica solida. Formidabile. Com'è stato bravo! Vorrei dedicargli un plauso in forma d'abbraccio: il primo gesto che mi trasvola dal cuore. Niente da fare: anche stavolta, le mie intenzioni non trovano alcun punto di fuga.

Mi alzo, ma, ahimè, non per esplicare a lui il mio entusiasmo, bensì per accogliere quella figura castana dai lineamenti morbidi, con passo fluttuante, come se fosse contornata da un'aura di rosa, pasticcini ed ambrate esperie: è proprio lei, che oggi mi adornerà il viso, la mia make up artist. Dolcemente paffuta, lei davvero è il perfetto manifesto della professione che esercita: i tratti qui smussati, lì marcati, sparsi lungo il suo stesso volto, sono tracciati con un rigore matematico persino percepibile; sembra quasi d'intravedere le sue dita mentre ora disegnano, dopo sfumano, decorano su, rischiarano giù.

Con me, parrebbe armarsi di una palette tenue, come a dare la sensazione di casta naturalezza, nello sguardo, nelle ombre degli zigomi e nelle labbra. Otterrà un risultato che la soddisfi? Mi abbandono ad un silenzio non pacificato: la mia esacerbante escursione nei meandri delle sinapsi non trova requie. Azzardo uno sguardo sulla realtà: lei mi studia l'ovale, e parrebbe appagata, a giudicare dal piglio compiaciuto con cui stringe le labbra pinte di un vermiglio lucido.

Il tempo si smussa rapido: di colpo, schiacciati in una minuta vettura a noleggio, ci troviamo in rotta verso lei. Un liscio percorso privo di sobbalzi, ed eccoci approdati. Fronte mare. Una sorta di cubo bianco mi sovrasta, mi sento come un bambino che, alla sera del suo compleanno, non sa da che parte cominciare con l'apertura dei doni.

Lei è un'artista, punto. Pioniera di uno stile fiabesco che, nella foto di moda, ha conquistato le pagine più patinate del globo.

Oso alcuni passi ponderati in questa casa che ho già conosciuto, ma di cui non rammento le fattezze. Il bianco è luce dominante, persino nell'interno, con qualche sprizzata vigorosa di colore qua e là di misteriosi quadretti senza nome. Una selezione di giovani donne in cornice, ritratte da lei, si direbbe. Aleggia un vuoto giocondo, un parapiglia carnevalesco nel quale, tuttavia, è possibile individuare una simmetria, un ordine, un nesso connettivo che metta in comunicazione i dettagli con l'interno. E poi, intercetto una figura. La sua figura. Appare già assertiva a questo mio primissimo sguardo che le dedico. È abbigliata in modo tanto essenziale da risultare quasi in divisa: si destreggia tra una bracciata e un'altra, comodamente fasciata da una camicia maschile, stazzonata ma rigorosa, che a sua volta è come solo accennata da un giacchino righettato dal sentore antico.

La frenesia delle gambe in guizzante movimento è placata da un paio di pantaloni scuri di un sobrio blu, mentre i piedi calzano fieramente un paio di scarpe sportive, color neve, nuove come se fremessero dal desiderio d'impiastricciarsi. La colgo comicamente impegnata nel rassettare un tavolo con velocità disinvolta ma incurante. Buffo: mi riceve con un entusiasmo squillante di voce energetica, tra le mani due bicchieri in vetro e una bottiglia scura, ma non abbastanza da celarmi il colore purpureo del liquido che contiene per metà.

Peccato che io sia astemia; in sua compagnia avrei favorito di buon grado. So bene che con lei non ci sia mai un cavillo per ossequi. Un abbraccio vigoroso che mi cinge in vita e poi via, lei è già lontana. Persisto nel mio furtivo osservarla: il viso dalle tonalità caffellatte rivela tratti irreversibilmente acuminati. Il perimetro del volto è scolpito come da aguzzi squarci di accetta. È una faccia determinata. Ne riverbera il temperamento. Potrei assimilare la sua figura ad una scultura. La costruzione fisica è così, le asciutte fattezze di guance, zigomi e mento, in contrasto e in comunione con una contenuta dolcezza di fianchi.

Il marcato pragmatismo le consente in un palpito di disporre nella dimensione domestica uno studio fotografico a tutti gli effetti, tra gli sguardi irresoluti e le labbra smarrite di tutti gli astanti, in attesa della sua regia. Nessun indugio. Le operazioni di marcia sono integralmente dirette da lei: sono sufficienti ora un gesto del braccio, ora un mugolio deciso, e ancora un flettersi scettico del sopracciglio, oppure un convinto ammiccare con tanto di schioccar di palato, per promuovere o scartare uno stile, un'idea, un accorgimento.

Gli scatti procedono alla rapidità di focosi flutti d'aria, si agglomerano istantanee sequenze di immagini. In un susseguirsi di scricchiolanti click, lei blocca l'immagine decisiva in cui la figura perde il controllo e si scompone: insomma, scatta fotografie. Coglie, tra mille probabilità da fissare, l'attimo naturale più sfuggente, alla Caravaggio. Lei, il controllo, non lo smarrisce. Neppure quando appare proprio lui, suo marito, spettrale, in discesa da una gradinata lignea che dà sul luogo del set.

Senza una parola, con uno yawn compiaciuto, si trascina verso la cucina, alla volta di un caffè tonificante. Evidentemente avvezzo alle orde invasive nel soggiorno domestico: facciamo parte del mobilio, a quanto pare.

Per tutti è un pomeriggio seriamente impegnato, sono spudoratamente affaticata, ma soddisfatta appieno. Mi chiedo se valga lo stesso anche per lei. Ad interrompere le mie subitanee impressioni sono i suoi rubicondi figli, che materializzati sul posto come d'incanto, stritolano con sollecito affetto uno snello gatto mielato e manifestano nelle voci pure e squillanti la richiesta persistente di una cena.

Constato solo adesso che l'orologio segni già un quarto alle nove, il crepuscolo si è dissolto in sera: come è tardi, e come sfrecciano i minuti quando si è felici! I due bambini ansanti chiedono dunque alla mamma cosa li attenda per il pasto al quale visibilmente agognano. E lei, l'Artista, scioglie di colpo i lineamenti del volto, sino a poco prima così rigidamente impressi, spalanca le braccia e prorompe, come la più classica mamma massaia italiana, in un sonoro ed entusiasta: "POOLPETTEE!"

Angelica's cover courtesy of Stefania Paparelli - Hairstyle: Filippo Oghittu, Toni&Guy Cagliari - Makeup: Magda Pintus

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