LO ZIO GIO
IL MAESTRO

angelica grivel

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

Il meteo era inclemente. Questo, lo ricordo bene. Per il resto, il solo tentativo di incastonare tutti i tasselli che si affastellano nella memoria a comporre quella giornata, è missione impervia a dir poco. Un turbinio emozionale, cristallizzato nella memoria e maturato con l’avanzare degli anni, ne fa uno tra gli episodi più incisivi della mia vita.

Nulla si è svolto per via di circostanze accostate casualmente: sorto grazie alla fantasia benevola di un tramite fortunato, l’evento ha subito poi indispensabili modificazioni di natura organizzativa. Una preparazione di due mesi, lungi dallo smussare entusiasmo e apprensione elettrizzante. Anzi, di giorno in giorno alimentavo di ulteriori aspettative quell’appuntamento, atteso e compreso in quanto esperienza che, per chiunque, è al limite dell’improbabile.

Mi accoglie una Milano cinerina vestita di un Febbraio freddo: non certo adusa a un clima così esangue, mi raggomitolo tempestivamente nel mio nuovo e opportuno piumino nero. Nel calcare rapidi passi in una tra le vie più glamour della città, ritmo i miei movimenti al suono dei tacchi di mia madre, che, sottile e maestosa, mi ingiunge con la sola presenza di camminare senza remore. Determinante, il fatto che lei sia qui, per darmi il beneficio della protezione in un luogo che non è mio e mi incute soggezione.

Fronteggiamo l’ampio cancello dagli eleganti ghirigori delle inferriate nere. Neppure uno strascico di tempo per osservarlo, dato che sopraggiunge, con tempismo straordinario, un ragazzo riccioluto, lungo e smilzo con una bici trainata a mano, proprio nell’atto di agevolmente adagiarla sul cavalletto, che mi figuro come il perfetto prototipo del Milanese doc: sbrigativo nell’agire, cordiale negli intenti, la bianca sciarpa borghese al collo, è come se conoscesse già il perché del mio trovarmi lì e mi conduce nel luogo designato senza un incespicare. Sarà stato sufficiente uno sguardo per comprendere istantaneamente che fossi nel luogo giusto? Quale buon viatico, allora!

Lo smarrisco dal mio campo visivo: si è dissolto rapidamente come è apparso. Soffermo uno sguardo interrogativo su mia madre; per tutta risposta, si materializza una ragazza dal viso pulito e dal sorriso caldo. È lei la Vestale del posto, si evince da quel modo spavaldo in cui acciuffa e ripone i nostri cappotti. Le movenze gentili e le parole scandite con premura sortiscono un effetto rincuorante, ma è evidente che l’attimo cruciale è sull’orlo dell’avvenire.

Ecco, appare. La nobiltà è percepibile sin dal suo incedere così saldo e dalla risoluta falcata, eppure, noto, per nulla altera. La voce echeggia anche prima del passo: questo suo rotacismo debole, dalla sofisticata cadenza milanese, abbraccia subitaneamente il mio gusto uditivo. Rivolge un saluto vitale ai suoi due solerti giovani assistenti. Ancora non mi ha individuata con lo sguardo. Il timore di un suo plausibile disdegno non mi abbandona.
Ritratto di Giovanni Gastel È lui che finalmente si volta: sguardo sul crinale della gioia, stemperata da una malinconia comunque pervasiva, nessuna alterigia a sfiorarlo. Ci incontriamo ed è un decussare di anime: gli rendo subito un primo, timido, ma trepidante abbraccio di circostanza, lui mi stringe con un vigore inatteso. Mentre mi trovo ancora convalescente dalla mia esitazione introversa, lui parla, in una sorta di monologo introduttivo, dalla parvenza convenzionale, che interpreto come un modo per ravvivare la situazione dallo stallo tipico dell’esordio. Abbraccia la mamma, lei ricambia, un po’ intimorita, noto, da un fugace tremore delle labbra.

Lo scruto con cautela, e ho come la percezione di un illuminante lampo di verità: la proiezione immaginifica della sua struttura fisica trasmuta in visione reale. Sino a pochi attimi fa, gli associavo, forse per via di un puerile prototipo inconsapevole, una statura austera e asciutta, quasi in analogia con il prestigio e la nobiltà del personaggio. Eppure, il corpo, sebbene non paffuto e indubbiamente altissimo e longilineo, si presenta con un girovita di generose e accoglienti forme: questo dettaglio, in qualche modo, mi tranquillizza.

Il suo raccontarsi fluviale s’interrompe bruscamente, con una domanda perentoria, ammiccata con lo sguardo: “Che dici, cominciamo?”

È il mio primo set fotografico; in principio, non mi percepisco agilissima. Mi soffermo troppo sul rigore che esigo da me stessa, trascurando invece quella libertà emotiva che lui mi suggerisce, con garbo sopraffino, ora inclinandomi delicatamente il viso da un lato per valorizzarne un dettaglio, ora gettandomi spunti d’ispirazione fantasiosi per raggiungere un elegante incrocio degli arti.

Mi racconta di una perspicace Linda diciassettenne, una bellezza commovente, che seppe sbaragliare concorrenti agguerrite grazie alla naturale intuizione empatica con l’occhio dietro la macchina fotografica. Lei, intuiva al volo il desiderio del fotografo e plasmava il proprio corpo in funzione della sua volontà. Il suggerimento fruisce l’effetto sperato.

Oltrepasso la mia soglia d’impaccio: permetto alla macchina fotografica di sedurmi.
Dieci ritratti, ciascuno dotato di un pregio che lo rende distinto e unico rispetto all’altro, si susseguono in un rapido processo di stampa, per poi essere prontamente incorniciati. Sono da considerarsi recisamente un dono da parte sua. Per una spontanea iniziativa d’affetto, lo avvolgo in un abbraccio filiale. Mi solleva per la sorpresa.

Oso descriverla come un’autentica e istantanea affinità tra noi, dovuta a un analogo intreccio di argot. Da allora sarebbe stato per me lo zio Gio, e io la sua nipotina. Persino la grafia dei nostri cognomi, che si avviano con una gagliarda G e s’inceppano con una medesima dolce L, (Gastel,Grivel), la suggella. Noi, intuii, ci capivamo.

Le tre del pomeriggio, scandite da un orologio casuale, rintoccano tassative. Solo un fugace momento per sorseggiare il tè verde a premurosa cura della giovane assistente, silente perlopiù, ma ad incrociare sguardi di sororale complicità, impareggiabile. Un ultimo incontro di braccia e di promesse per il futuro, ed è subito una corsa alla volta dell’aeroporto. “Check up? ...È questo posto per il check up?” Una voce femminile arresta il mio flutto di pensiero: i ricordi di questa mattina, evidentemente, meritano future meditazioni. Mia madre sorride con dolce garbo: è lei a replicare, indicando a parole la sede deputata al check in.

Mi volto, con circospezione. Scruto questa creatura che vagola ciabattando per l’aeroporto, ai piedi un paio di espadrillas sdrucite, di un polveroso arancio ruggine che certo un tempo rosseggiavano sfolgoranti, tuttavia giammai precisamente idonee ai pungenti climi dell’inverno milanese. Di piccola statura ancorché di struttura massiccia, indossa una congerie di indumenti che si orientano su tonalità rosa vivace, verde acido e un giallo smunto. Mi genera una inesplicabile sensazione di tenerezza e compassione, quasi a volerla circondare di premure e ascolto. Tiene, in un marsupio improvvisato con un liso scialle sfrangiato, a mo’ di terzo, gigantesco seno, una bambina dagli occhi smarriti, silenziosa e scarna; piccole croste tra i capelli crespi e unghie smaltate di un rosso che non le si addice. Fa macerie del mio cuore. Accanto, un giovane uomo, sgualcito e trasandato. Negli occhi, una fierezza cauta e riprensiva. Salvo poi illuminarsi di un confidente sorriso, nello scorgere un autentico coinvolgimento da parte mia e di mia madre.

Gli occhi della giovane donna sono quelli di chi soffre e non sa esplicarlo, ma il fluire parlato che all’improvviso emerge ha quella punta di sollievo caratteristica di un qualcosa che si libra e libera, finalmente, dopo un silenzio soffocante, ormai stantio. Il movente del loro primo volo aereo schianta e strugge il mio umore, fino a quell’istante ancora in credito con l’euforia mattutina.

È il tragico, definitivo addio alla sorella minore, che ha lasciato ciondolare inerme ad una trave la sua speranza d’un amore disatteso. Aveva diciotto anni, pochi anche per chi, per costume e cultura, brucia innocenza e sogni d’infanzia, con fervore accelerato.

Due ore al gate a condividere gelatine alla frutta e a cercare di emendare, in qualche modo, certe sciagure proprie di quelle vite intrappolate come per un fatale destino. Il primo decollo, un battesimo al cardiopalmo: la giovane mamma sussulta e strilla. La piccola si agita. Tempestivamente, mia madre allunga una mano carezzevole sul viso della donna, per poi stringerle con forza le dita inanellate; io, mi produco in vezzeggiativi teneri e stringo la manina della bimba. Ecco, infine, il sorriso della sventurata: a tratti placcature auree in alternanza ad alcuni spazi cavernosi e scuri. Eppure, riluce.
L’ansia si è acquietata.
Le dissonanze si ricompongono.
La degna chiosa di una giornata memorabile.

Angelica's Photo Cover - Courtesy of Giovanni Gastel - Il ritratto di Giovanni Gastel è di Marina Alessi.

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