TURANDOT
PRINCIPESSA DEL COSMO

turandot

MOSTRE

In una Pechino che scorre tra pareti in arenaria e grattacieli metafisici, Sciola ci accompagna per mano dentro lo spettacolo della natura. E riporta indietro le lancette dell’orologio, li dove tutto ebbe origine.

Sembrano passati anni da quella sera di aprile in cui ci incontrammo per la prima volta. Il fato o qualche fortunata coincidenza ha voluto che quella stessa sera, alla sua corte, nella casa di Pinuccio Sciola, arrivassero anche gli scenografi dell’ultima grande opera testamentaria di Puccini.

philippe daverio «Chi è l’artista? È quella persona che riesce a sentire delle cose che io non sento. Che riesce ad avere una percezione, una coscienza, e una pulsione interna che ne fa un’artista. Loro, gli artisti, hanno una memoria più profonda di noi nel campo di Pitagora, nel campo del cosmo. Sciola è questo, e il segreto della sua arte sta tutto li: nel Big Bang. E lui riesce, con i suoi sassi, a inventare quella cosa che l’opera da sempre deve fare: una Cina che non sarà mai vicina, perché è la Cina delle fiabe». Così, un mese fa a Cagliari, Philippe Daverio concludeva la sua lectio magistralis parlando del suo amico Pinuccio Sciola in un Teatro Lirico affollatissimo. Questa Turandot ha qualcosa di unico e leggendario – «qualcosa di abbastanza vicino a un miracolo» per usare le stesse parole del critico d’arte francese - che la farà entrare, a gran titolo, nei libri di storia.
Un’opera che non è calligrafia della modernità o stravolgimento azzardato di uno smargiasso in cerca di celebrità.
L’intuizione di Mauro Meli – sovraintendente del Teatro Lirico di Cagliari - di abitare l’incompiuta del maestro toscano con la scultura di Sciola sembra sia fatta apposta per amplificarne il pathos e le tinte pastello di questo paese di inizio novecento, tratteggiato con dovizia di particolari, nel 1924, dal grande Giacomo Puccini. Un’opera galvanizzante e magnifica. Un matrimonio morganico tra Sciola e Puccini, riuscitissimo. È una Pechino, arcaica e moderna, primitiva e post-atomica. Una Turandot a tratti dantesca. Coi suoi gironi ruvidi e materici, ma anche gotica e affollata come in un dipinto di Hieronymus Bosch.
turandot In questa nuova ricostruzione, l’opera di Sciola è riuscita a riconquistare quell’empito metafisico che a un certo tipo di teatro mancava. Quella capacità di rapire il cuore dello spettatore, avvolgerlo prima ancora che il sipario si sollevasse. Con la supervisione alle scenografie di Sabrina Cuccu e il lavoro di talentuosi artigiani negli atelier del lirico, il teatro è stato trasformato in un monumento naturale anche per la città di Cagliari.
La piazza davanti al teatro con il totem. Quello più alto di tutti. Quello che il maestro di San Sperate ha montato e smontato per poi rimontare ancora, prima nella sua casa e poi nei laboratori del teatro. Un'opera che ti invita a girargli intorno allargando le braccia. Un monumento che, durante queste settimane di rappresentazioni spingerà, come già sta facendo, a prestarsi come sottofondo e quindi come quinta architettonica agli scatti di centinaia di spettatori.
All’interno del foyer, un altro totem ci riporta all’esposizione di Madrid de “La Città sonora” di Sciola che, come ci dice Salvatore Campus responsabile tecnico del teatro: «Rimarrà qui per sempre. Questo totem sembra nato apposta per il Lirico».
valentina farcas Ma cosa significa per un artista che sta su quel palco essere circondato dall’opera di Sciola? Ci risponde il soprano Valentina Farcas che insieme a Maria Katzarava sono le due Liù di questa Turandot.
«Quando mi trovo nei teatri in giro per il mondo le scenografie sono solitamente oggetti costruiti dagli scenografi. Una poltrona, una parete, sono li per definire il quadro dove noi soprani ci muoveremo. Qui, per la prima volta, mi sono sentita parte di un immensa opera d’arte. Cammini e canti dentro all’opera di Pinuccio Sciola. La scenografia influenza tantissimo la nostra interpretazione. Mi è capitato di lavorare ad alcune recite dove quello che mi circondava era talmente “pesante” che era, per me, come trascinarsi un masso di 100 chili sulle spalle. Durante queste settimane, mentre stavo sul Palco del Lirico, ci sono stati dei momenti talmente intensi che ho avuto la pelle d’oca. So che quello che sto per dire, per chi non è un artista o un cantante come noi, può suonare strano, ma c’è un momento dove l’emozione che provi, sia fisica che mentale, è talmente forte che diventa un vero orgasmo musicale».
turamdot Mi sono sempre chiesto, perché completare un'Opera come la Turandot, quando, con la morte di Liù, in questo suo finale abrupto, aveva già tutta la bellezza del migliore e tragico degli epiloghi. Ci risponde il regista, Pier Francesco Maestrini:
«Ad un certo punto mi sono posto il problema: quale finale facciamo? Il finale di Alfano o quello più recente di Berio? Poi mi sono detto: questo è il vero finale! La Turandot deve terminare con la morte di Liù, quindi con la morte di Puccini», e sottolinea, «Con la morte di Puccini, e quindi con la Turandot, si interrompe l’Opera vera e propria. Da quel momento in poi inizia l’epoca del cinema e del music-hall poi. Puccini in questo senso è stato un vero precursore del mondo della celluloide».

Su quali binari si è mossa la sua regia?
«In questa nuova versione ho voluto fortemente che tutto ciò che di stereotipato c’era della Cina che conosciamo fosse allontanato. Un processo divertente in un tempo molto breve. Quello che lo spettatore vedrà è un cinese a inizio novecento. In questo senso il buon Marco (Nateri, costumista) ha fatto un ottimo lavoro di ricerca. Le figure che entrano in campo sono magiche e rispettose. Si stagliano in maniera precisa da tutte le altre.
simon corder Marco ha scelto dei colori molto netti: niente di folle, ma neanche niente di troppo terreno. Avevo chiesto che, ad ogni soluzione dell’enigma, la Turandot fosse svelata, perdesse cioè un pezzetto di quel muro invalicabile che la rendeva irraggiungibile»

Non solo una regina che lentamente scioglie i suo cuore di ghiaccio lasciando cadere i pezzi della sua “armatura”, ma in questa ricostruzione vediamo anche degli acrobati volanti.
«Si, sono i tre ministri, Ping, Pong e Pang che dovevano essere degli acrobati. Le evoluzioni sono un omaggio alla Cina dei grandi acrobati ma al tempo stesso volevo introdurre un elemento leggero, guascone. Sono tre folletti in definitiva»

Una regia accompagnata da una scenografia illuminata e messa a fuoco da uno dei più grandi light-designer al mondo, Simon Corder.
«Simon ha usato i colori sulla scultura bianca di Sciola. Le influenze che lo hanno contaminato durante i tanti anni in cui si è occupato di illuminazione negli spazi aperti le ha trasportate magnificamente dentro a questo palco.
liu, turandot, Maria Katzarava Questa scelta non italiana - alla Storaro per intenderci - dell’uso della luce è stata vincente».

Sul palco un coacervo di figure si stagliano in maniera molto netta sulle monumentali scenografie, tra gong in pietra e teste mozzate dal boia. Chiediamo a Marco Nateri, che di questa Turandot ne è il costumista, come sia riuscito a dare enfasi e linguaggio a ogni personaggio.
«Ho cercato, prima di tutto, di capire il lavoro di Pinuccio. In seconda battuta come agire in uno spazio scenico così particolare. Nell’opera di Sciola, in questa “sua” Turandot non c’è modernità. Quando la vedi anche per la prima volta è come se si entrasse davvero tra le mura di questo palazzo. Per la prima volta, forse, vediamo davvero la Turandot che Puccini ha pensato. In tutto questo, per i costumi, ho cercato di avvicinarmi a quest’opera studiando le linee. Tutto ciò che riguarda il costume storico ma fatto di linee geometriche. Prendendo le distanze da quelle che io chiamo “cineserie”. Niente più draghi, niente più tessuti cinesi, allontanandomi dall’opera di Brunelleschi se vogliamo, ma soprattutto cercando di costruire un costume fatto di linee e colori molto definiti. Il mio lavoro parte da una tempera di un’artista cinese dell’epoca Ming. E li c’è tutto il lavoro dello spettacolo, tutto il racconto dei costumi. Suddivisi per classi, dove abbiamo i costumi blu del popolo, il giallo dei soldati per arrivare poi ai costumi interni dei solisti. E considerando che Pinuccio è uno scultore mi sono avvicinato alle sculture cinesi. Come le ancelle che provengono da sculture in terracotta, come anche i bambini e Ping, Pong, Pang.
turandot Nel corpo dei boia poi, completamente dipinti di bianco, ho voluto scriverci sopra i versi di una poesia cinese.
Lavorare con un artista è completamente diverso dal lavorare con uno scenografo. Ho già collaborato con altri artisti come Valerio Adami, ma qui c’è una forza diversa. Questa forza nasce dall’anima, da una conoscenza differente. La sua gioia nasce dal fatto che Pinuccio è come un bambino e come tutti i bambini gioiscono nel veder le cose, gioiscono nel veder nascere le cose. E questa è la forza che ha dato a tutto lo spettacolo. Perché alla fine tutti, insieme a lui, siamo ritornati bambini. Lavorare in questo teatro è un grande lusso. E in questa occasione c’è stato un lavoro straordinario da parte di tutte le maestranze per “proteggere” questo lavoro. È stato un momento di grande crescita e maturazione sia da un punto di vista culturale che artistico per tutti noi. Ma soprattutto una crescita del nostro patrimonio umano. Tutto questo è Pinuccio Sciola».
L’ultima tappa narrativa di questo nostro viaggio approda nel camerino del direttore d’orchestra. Incontriamo Giampaolo Bisanti, un’ora prima che il sipario del Lirico si apra al pubblico.
giampaolo bisanti Maestro Bisanti, come ha modellato, pensato e musicato questa Turandot?
«Non si può intervenire su un quadro per modificarlo come si vuole. Penso a una Gioconda o un quadro qualsiasi di Picasso. Avere tra le mani un capolavoro del genere, permette invece a un direttore d’orchestra di poterlo “maneggiare” secondo la propria sensibilità. Ovviamente partendo da certi parametri che devono essere fissi e sacrosanti, perché ogni periodo storico ha le sue norme e i suoi credo. Tu non puoi dare un’ impronta esecutiva a Mozart come la dai a Brahms, o a Händel come la dai a Puccini, perché sono periodi, stili e linguaggi diversi. Per cui la nostra sfida diventa quella di far rivivere quello che è scritto su un foglio. Non c’è niente, c’è un segno. La famosa semiologia, lo studio del segno. E dobbiamo farlo coi mezzi che abbiamo, che sono tecnici, musicali, interpretativi, e tutto quello che trascendono la tecnica e la materialità dell’esecuzione, ovvero il talento la sensibilità e le idee che possono nascere dall’approccio ad un capolavoro come questo. Turandot è un caso a parte, perché siamo già in un novecento inoltrato dove sta nascendo la seconda scuola musicale di Vienna e Puccini, pur usando un approccio – mi si passi il termine - “tonale” della partitura, inizia ad usare linguaggi che saranno propri degli anni a venire. turandot Già sentire come inizia la Turandot ci si accorge immediatamente che ci stiamo spostando in un’altra direzione. La Turandot deve essere vista come un'opera quasi istintuale, istintiva. Perché al contrario di altre partiture dove hai più spazi per la manipolazione, Turandot è un “quadro” in cui è scritto tutto. È scritto tutto perfettamente. Puccini è un po’ il regista di se stesso, perché oltre a livello musicale, agògico, e dinamiche di forte e piano è interessato a scrivere in maniera didascalica il modo in cui si devono posizionare i personaggi e che tipo di effetto lui vuole. Turandot è il primo vero grande colossal. Usa un linguaggio onomatopeico per certi aspetti, quindi l’utilizzo dei gong cinesi piuttosto che dei tamtam. È tutto un potpourri di emozioni di artigianato e di grande bellezza. E noi non dobbiamo fare altro che metterci una mano nella coscienza, capire quello che lui scriveva e rievocarlo con la nostra sensibilità. Senza mai – e io sono molto partigiano in questo – inventarsi qualcosa di nuovo. Per me un forte è un forte, un piano è un piano. Stravolgere una partitura vuole dire stravolgere un'idea che è stata messa sulla carta. Quello che deve arrivare al cuore dello spettatore, dell’ascoltatore è l’apogeo di tutto quello che ha scritto il compositore. Noi, direttori d’orchestra, non siamo altro che un tramite. Se il pubblico non vibra con gli esecutori, vuol dire che noi si, stiamo facendo un’esecuzione che è corretta stilisticamente, ma alla quale manca l’aspetto dionisiaco, quel qualcosa di imperscrutabile, di metafisico. Se il pubblico vibra e si emoziona, vuol dire che Puccini ha vinto e noi con lui»

Una grande sfida per un direttore d’orchestra. Ma cosa è che fa davvero la differenza?
«L’entusiasmo della vocazione. È questo il vero distinguo nel nostro lavoro. Chi non ha vocazione è un non-musicista. È un musicista morto. Allo stesso modo chi ha una bieca e materiale ambizione, allo stesso modo è un musicista morto.

turandot Il primo giudice di noi musicisti è il pubblico. Noi abbiamo il dovere di far emozionare sia quello esperto che va a teatro e si accorge di tutto, sia quello che a teatro ci va, magari per la prima volta, e non è un esperto di opera»

turandot Turandot incompiuta. Una scelta teatrale che, seppur spiazzante, al pubblico è piaciuta tanto.
«Anche se io sono un grande ammiratore e estimatore del finale di Alfano, la scelta del teatro - che anche io ho avvallato - è stata quella di concluderla così com’era. Con questa incredibile e tristissima dissolvenza. Con questa nota acuta, su questo mi bemolle dell’ottavino che è l’anima di Liù che si sta allontanando dopo il suo suicidio e tutti i personaggi che la omaggiano come una sorta di requiem. E sul buio, come disse Toscanini, “l’opera finisce perché il maestro è morto”».

Come è stato l’incontro con Pinuccio Sciola? «È stato uno shock! Un direttore d’orchestra non entra in merito a quello che c’è li sopra», indica il palco,«Oltralpe usano spesso delle regie un po’, per usare un eufemismo, “strane”. turandot turandot Tipo Aide che escono fuori dalle lavatrici o cose del genere, dove a mio giudizio, oltre ad esserci una totale difformità con il libretto e con l’ambientazione storica ci sono spesso, non dico sempre, delle incongruenze che alla fine ti fa pensare che chiunque – che sia La Battaglia di Legnano, Turandot, Manon Lescaut o Bohème - possa allestire uno spettacolo in qualsiasi modo. Ci metti una lavatrice, un altalena, aggiungi quello e quell’altro. Ma quando colui che guarda, non percepisce e non capisce, e non riesce neanche a intravedere allora c’è qualcosa che non va. Con Sciola bisogna intravedere. Nella sua Turandot non vedi Pechino; tu intravedi cosa c’è dietro il pensiero di Sciola. E questo è favoloso. Pinuccio è la prima volta che si cimenta in un teatro importante con un titolo “monster”. Aver visitato casa sua, aver visto da vicino come e cosa crea, la semplicità, l’intelligenza e il talento di quest’uomo, inverosimili, mi hanno fatto capire cosa ci fosse alla base di tutto questo lavoro. Quando sono arrivato qua, avevo sentito parlare di Pinuccio Sciola, ma non sapevo chi fosse. Abbiamo fatto un mese di prove e mi sono reso conto di quale meraviglia ci fosse dietro il suo lavoro. In questa Turandot non abbiamo la Pechino di Zeffirelli, non abbiamo lavatrici o cose del genere, abbiamo quello che tutti hanno visto fin’ora: la pietra. La pietra che canta. E quando dopo la generale mi portò a casa sua dove, sino alle 3 del mattino, mi fece sentire con le sue mani come questa pietra riuscisse a parlare, rimasi intontito. Sarebbe rimasto li sino alla mattina dopo. Pinuccio è questo: è la semplicità che non è semplicismo. La musica di Mozart è semplice ma non è semplicistica. Lui, Sciola, con la sua istintività, con il suo artigianato e con la sua dote, ha dato un apporto che visivamente è molto semplice, ma chi è intelligente riesce a intravedere un universo completamente nuovo. Chi non è capace di intravedere vede comunque, e sente, l’emozione di un qualcosa che non si è mai visto prima.
Quindi il successo di questa produzione è soprattutto grazie a lui. Perché non è la classica nuova produzione che ti propone un palazzo al posto del Cafè Momus o una spiaggia al posto del deserto dove Des Grieux e Manon Lescaut moriranno. Questa produzione ti propone una nuova visione della Pechino intesa nella storia di Puccini.
turandot È un allestimento, una scenografia che non ti fa mai abbassare l’attenzione. Il direttore quando dirige non è che deve guardare molto li, ma poi a posteriori quando riguardo attraverso il registrato i video di questa Turandot, mi rendo conto di quanto lui sia riuscito a mostrare qualcosa di ancora non visto, che ha fatto molta presa sul pubblico. È stato apprezzato a livello globale da chiunque, dalla stampa al pubblico. La cosa meravigliosa è la sua semplicità. Lui è presente a ogni recita, lui sale sul palcoscenico a ogni recita. Lui si commuove a ogni recita. Lui la vive come un bambino. La prende, come dicevo prima, in maniera istintuale. Lui è istintuale in quello che fa, magari non se ne rende conto neanche lui, però quello che ha messo li sopra è il frutto di tutto il suo talento e di tutto il suo lavoro. Fossero tutti come Pinuccio, il mondo probabilmente sarebbe diverso».

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