PINUCCIO SCIOLA

garry winogrand

ARTE - NELLA CASA DELLE PIETRE CHE PARLANO

Quando la natura è il vero spettacolo. A San Sperate, per conoscere l’artista-sciamano che fa parlare la materia più antica del mondo.

pinuccio sciola Artista blasè dalla personalità prismatica, e mani che si agitano, come per voler costruire sempre qualcosa. Occhi vispi e curiosi come quelli di un pixie celtico. Uomo di pensieri radicali e poco mainstream: Pinuccio Sciola è sorprendentemente imprevedibile. Sfuggente a qualsiasi definizione, lontano dall’immagine di uomo e artista che avevamo tentato di abbozzare prima di questo incontro. Ci eravamo preparati a squadernare domande, ma dopo un’ora che ci siamo conosciuti – dove non mi ha lasciato grandi spazi verbali se non per farmi assaporare il canto delle sue “pietre” - mi chiede inquisitorio: «Che domande mi volevi fare?», sto per rispondere ma lui, guardandomi negli occhi, sopraggiunge dicendo: «Che domande mi volevi fare? Se tu non sai nulla! Nulla di tutto questo».
È vero so così poco di queste sculture che suonano e che vibrano, di questi suoni ancestrali e primitivi. So molte cose di lui come artista, lo avevamo già incontrato durante il Premio Navicella a Castelsardo. Ma non so assolutamente nulla di Sciola lontano dai riflettori e dagli epiteti giornalistici.
pinuccio sciola Se sono qua, se siamo dentro a questa casa-atelier è proprio, come nostro solito, per andare al di là delle copertine e degli strilli dei media. Siamo arrivati a San Sperate per incontrare, per conoscere e per assaporare l’uomo dietro al personaggio. Il Pinuccio Sciola figlio di contadini e «Figlio della pietra» come ci ripeterà, orgogliosamente, più volte durante queste otto ore trascorse, perdendo il senso del tempo, in sua compagnia.
«Siete venuti qui per conoscermi? Bene. Non c’è nessuna fretta. La serata è lunga: e ora seguitemi»

La sua casa, nel cuore storico di San Sperate, è un luogo dai forti sapori teatrali. Il rifugio ideale dove prendersi una pausa dal personaggio pubblico. Non ci sono picchetti di confine tra gli spazi abitativi e quelli creativi. La stanza più grande di questa antica magione campidanese è immersa da un'enciclopedia di appunti, libri, foto e di dimenticanze sepolte, oltre alle sculture e dai suoni e dalla musica pulviscolare delle sue pietre. Ha qualcosa di sinistro e sorprendentemente affascinante l’effetto che fa ad ascoltare quei suoni campionati, registrati e fatti andare in sottofondo, come colonna sonora immaginifica per uno dei romanzi di Tolkien. «Io non sono un musicista. C’è già chi lavora con gli spartiti e le note. Il mio compito è dare voce alle pietre. Pensavi che fossero immobili? Ascolta…» e li, fuori sotto i porticati (le lolle) ai perimetri del giardino, mi invita ad appoggiare bene l’orecchio sulla parete laterale di una delle sue arpe di arenaria. «Che cosa senti?»: fiumi sotterranei di roccia liquida. Echi lontani di borbottii tellurici. Se il violoncello è lo strumento coi suoni più simili alla voce umana allora questi che sto ascoltando sono quelli più vicini alla voce della Terra. «La pietra va accarezzata, non percossa. Con le mani o con questo archetto di violino. Qui sono venuti musicisti, percussionisti che hanno tentato di batterla con bacchette e martelletti. E in alcuni casi l’hanno danneggiata. Ma questi suoni vengono fuori solo quando la sai accarezzare». Sembra quasi un monito e ci piace pensarlo così: a una metafora dei rapporti tra l’uomo e la natura. Proviamo anche noi ad accarezzarle: ma non viene fuori nessun suono, come se, quelle sculture, prestino la loro voce solo a chi, come lui, è capace di coccolarle. «Voglio mostrarvi qualcosa di più grande, che sta qui a pochi passi da noi». Lo seguiamo mentre ci conduce verso un posto che ancora non conosciamo a qualche minuto di cammino dalla sua casa.
pinuccio sciola pinuccio sciola Arriviamo in un parco immerso nel verde: un luogo carico di energie. E qui, tra aranceti e piante aromatiche mediterranee, Pinuccio custodisce le sue opere più grandi, in un percorso labirintico tra monumentali megaliti che amplifica il senso dello smarrimento. Molte sono terminate, pronte a regalarci la loro “voce”, altre ancora danno la sensazione di essere in nuce, che aspettano di maturare sotto ai tagli dello scalpello e delle mole elettriche. La trama incisa nel basalto ha la bellezza icastica di un arazzo d’antan, in altre ancora ricorda il tratto rettilineo e irregolare del procedere del vomere nei campi. Anticipando il nostro passo ci invita a restare davanti ad una delle sue opere (nessuna ha un nome o un titolo) che, dalle incisioni verticali che la attraversano per quasi tutta la altezza, ci appare come un grosso pettine per ciclopi. «Guardate queste trasparenze» occhieggiando dai tagli verticali della pietra inizia ad accarezzarle longitudinalmente con un cursore di pietra. Prima una, poi un'altra ancora. Sembra quasi un moltiplicarsi di presenze e di suoni. Un immersione nelle infinite sensazioni che tutto questo ci suggerisce. In lui si avverte un forte senso lucreziano per il Creato: «Vi siete mai fermati ad applaudire un albero in fiore? Il vero spettacolo non sta su un palco, ma sta qui fuori. Il vero spettacolo è la natura. Ritorneremo più tardi qua. Voglio che osserviate queste pietre sotto la luce della Luna».

pinuccio sciola pinuccio sciola È buio e il giorno ha ceduto il passo al chiarore delle stelle, quando ritorniamo nel “giardino dei giganti”, il suo laboratorio a cielo aperto. Questa volta siamo ancora più numerosi. A noi si sono uniti Sabrina Cuccu, direttore degli allestimenti scenici del Teatro Lirico di Cagliari con uno staff di scenografi arrivati da ogni dove d’Italia. Con loro anche Simon Corder, tra i più grandi Light Designer al mondo: arrivato apposta da Londra per questa occasione. L’occasione ha il nome dell’incompiuta di Puccini: Turandot. Lo staff del Lirico è qui perché, grazie ad un illuminata intuizione del suo sovraintendente Mauro Meli, le scenografie della Turandot si vestiranno, per la prima volta , di Sardegna con gli iconici monoliti di Sciola: la cultura litica incontra la cultura del teatro. Si discute di texture delle pietre, allestimenti e illuminazione. Pinuccio indica a Simon il modo in cui gli piacerebbe vedere illuminati i suoi giganti sul palco. Il light designer britannico è arrivato a San Sperate per capire come far convivere le intuizioni artistiche e sensoriali di Sciola con gli spazi del Lirico, in un dialogo continuo tra la messa in scena dell’Opera e la visione in tempo reale del pubblico. «Vorrei, per quanto è possibile, aderire alle richieste di Sciola. Non sono venuto qui per imporre la mia visione, ma per far vivere al pubblico il mood dell’artista all’interno di un Opera come la Turandot» ci spiega Corder, «Ho necessità di capire cosa immagina e come vorrebbe che la luce filtrasse anche attraverso le fratture della roccia». All’improvviso una luce fumosa illumina la notte. Poco distante da noi un installazione visionaria e mistica, che non avevamo notato in precedenza. Un girotondo di “menhir”, altre opere del Maestro, qualcosa a metà strada tra Stonehenge nello Wiltshire e un antico cimitero vichingo, vengono illuminate delle fiamme del fuoco. Al centro del cerchio, Pinuccio ravviva la fiamma con un lungo ramo di alloro. «Volevo che vedeste l’effetto che fa il danzare del fuoco sulle pareti di queste pietre» ci dice sorridendo, «una volta ho fatto questa cosa accendendone diversi, in alcuni punti di questo parco, per una comitiva arrivata da fuori. I loro occhi si bagnarono dalla commozione». Ci raccogliamo intorno al fuoco. Ognuno di noi respira a modo suo quell’atmosfera sospesa tra un antico rito pagano e il panismo di un artista che ama accompagnare i suoi ospiti oltre i dogmi della ragione. Quando gli chiediamo «Hai iniziato da bambino a sentirti attratto da tutto questo?» lui ci risponde: «No. Da molto, molto prima». Il tempo di eseguire alcuni scatti che correderanno poi questo racconto e l’artista-sciamano inizia a soffocare la fiamma con le frasche di alloro. «Ora è arrivato il momento di spegnere questo fuoco per accenderne un altro: quello della cucina. Altrimenti stasera non ceniamo».
Rientrati nella sua casa, ci mettiamo tutti al lavoro: chi apparecchia la tavola, chi affetta la salsiccia e il formaggio, chi prepara il vino nelle caraffe. Si respira un aria di festa in campagna. Perché una vera festa inizia sempre in cucina.
La sala da pranzo è circondata da tante piccole opere. Scopriamo all’interno di una cassa delle bellissime terrecotte. Lo Sciola dei murales e delle sculture parlanti è anche maestro nella lavorazione delle argille. Sono figure simbolo di una Sardegna contadina: uomini temperati dal tempo, con la faccia masticata dal sole, che dialogano tra loro. pinuccio sciola E il dialogo è la vera ragione di questi incontri corali. Perché queste mura antiche, riuniscono da sempre intorno al suo desco, artisti e intellettuali, poeti flâneur e bon vivant. «Vedi Simon», rivolgendosi a Corder, Pinuccio indica la sedia al capo del tavolo «proprio li, su quella sedia dove sei seduto tu, tanti anni fa sedeva Josef Svoboda». Fa davvero uno strano effetto pensare che intorno a questo tavolo siamo passati artisti di questa statura. Pinuccio Sciola ne parla con una semplicità disarmante, lontanissima dall’ego ipertrofico che ti aspetteresti da qualcuno nel raccontare di commensali di questa portata. Umile e divertentissimo, ci racconta di «Quella volta che rientravo dal Sud America, con un volo intercontinentale. Imbarcatomi all’ultimo, perché non c’era più posto, trasmettevano quel film con Giulia Roberts che lei faceva la… Com’è che si chiama?», e noi «Pretty Woman» e Pinuccio «ah si quello! A un certo punto vedo lui, quell’attore coi capelli bianchi» (Richard Gere) «e dico: oh ma questo sono io!». O dissacrante e pungente, come quando una delle scenografe racconta che lei fa molto movimento per rimanere in linea, «anche stamattina mi sono fatta 8 chilometri a piedi» e Pinuccio serissimo: «Ma per andare dove?»

pinuccio sciola pinuccio sciola La serata volge al termine. Gli ospiti sono andati via quasi tutti. Ma noi ci tratteniamo ancora qualche minuto insieme a lui, giusto il tempo di sfogliare un album di immagini digitali che custodisce all’interno di un tablet: «Pinuccio, ti è dispiaciuto vedere cancellare per sempre il tuo murales da Piazza Repubblica a Cagliari?», «Dispiaciuto? Per nulla. Era ora che lo buttassero via. Aveva fatto il suo tempo».
E anche il nostro tempo a disposizione è terminato. Pinuccio ha gli occhi stanchi ma felici, ma ha ancora il tempo per raccontarci, in maniera più intima, di cose che non pubblicheremo mai, ma che ci porteremo appresso per sempre.
Perché Pinuccio Sciola è anche questo: un immensa biblioteca di aneddoti, esperienze, di arte e di vita, e di suggestioni, ma soprattutto di umanità, che solo lui sa raccontare.
E mentre mi allontano, a notte fonda in questa notte di luna piena, dalla casa del Maestro, mi scorre nella mente l’ultima domanda. La stessa che, ne film Gigolò per caso, Avigal (Vanessa Paradis) rivolge a Fioravante (John Turturro):
«È questo che fai? Porti la magia tu?» pinuccio sciola

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