Cagliari, Spazio E_Emme

UN, DUE, TRE... PASTICHE!

ARTE

Come in una pasticceria. A Cagliari nello spazio E_Emme: Baragliu, Pigliapochi, Spatola e le loro dolci “tentazioni”

La parola pastiche è una parola dalle molte anime. C’è quella alimentare, innanzitutto, che denomina “pasticcio” ogni pietanza in cui un involucro di pasta sfoglia o pasta frolla croccante contiene un ripieno di maccheroni, carne, pesce o verdure a scelta. E poi c’è l’anima più prettamente estetica, che fa tornare indietro fino al XVIII secolo, quando venivano così classificate le opere teatrali (perlopiù opere comiche, e non di rado esito del lavoro di impresari senza “gusto”) nate dall’accostamento di brani appartenenti a libretti, autori e compositori differenti. Un’accezione, quest’ultima, destinata a entrare nell’uso per definire qualsiasi opera letteraria, musicale o artistica il cui artefice avesse imitato intenzionalmente uno stile altrui o giustapposto brani di varia autografia e provenienza, dando vita a veri e propri pot-pourri di stili e linguaggi. Perfino l’architettura, a quanto pare, avrebbe le sue occorrenze, dal momento che il termine indica quei manufatti non del tutto autentici e non del tutto posticci nati dall’assemblaggio a posteriori di frammenti antichi (un po’ come accadeva tra Cinquecento e Seicento, quando le pareti delle dimore nobiliari venivano abbellite con rilievi composti da frammenti di epoca romana integrati con lo stucco). Che dunque sia proprio Pastiche il titolo della mostra appena inaugurata presso lo Spazio E_Emme di Cagliari è un dato che non intende lasciare indifferenti gli avventori: non fosse altro che ciò che vi viene esposto non è solo il risultato di una contaminazione intenzionale tra i vari modus operandi degli artisti coinvolti, bensì una più ampia riflessione su quanto sia spuria e stratificata la percezione del cibo per eccellenza della cultura visiva contemporanea, c’est à dire l’immagine.

Curato da Anna Oggiano, Pastiche coincide con il debutto in Sardegna da parte di IDEM Studio, trio artistico che nasce nel 2015 dalla condivisione delle ricerche di Ruggero Baragliu, Samuele Pigliapochi e Angelo Spatola, e che periodicamente, nello spazio espositivo torinese sito in via Vincenzo Lancia 4, presenta al pubblico l’esito di quelle collaborazioni reciproche che si alternano ai rispettivi percorsi autonomi (www.idemstudio.it). A leggere il catalogo, il senso del progetto è quello dell’«omaggio ironico e irriverente alle convenzioni sociali e alle leggi di mercato che governano il mondo dell’arte»: non tanto un intervento ascrivibile alla critica istituzionale più seriosa e rigorosa, quanto una rielaborazione “indiretta” – e quale forma indiretta più intelligente dell’ironia, per l’appunto? – volta a mascherare (ovvero a dotare di una maschera riconoscibile come tale) la rigurgitante offerta di immagini (artistiche e non) che caratterizza la nostra comune fruizione e percezione. La tematica (peraltro da sempre al centro dell’indagine del trio) è, come si capisce, tra le più attuali e complesse, dal momento che ragionare in modo critico sulle dinamiche che esasperano i meccanismi della visione mette in conto un duplice svuotamento di senso e di valore: quello dell’azione in sé e quello dell’oggetto su cui essa ricade. Perché se è vero che gli esseri umani sono creature essenzialmente “retiniche”, allora l’esercizio dello sguardo è paragonabile a una funzione vitale primaria, necessaria per esperire e per conoscere; e così anche le immagini, in un’ottica simile, sono l’alimento base per la sopravvivenza. Eppure la degenerazione di queste dinamiche è sotto gli occhi di chiunque: prendiamo visione di ogni cosa senza mai osservarne nessuna, e le immagini a nostra disposizione sono ormai talmente numerose, variegate e invasive che il loro confezionamento interessato si affida sempre più spesso a strategie di seduzione sofisticate e ingannevoli, che finiscono col renderle affini alla categoria di alimenti più sfiziosa e meno nutriente che ci sia: i dolciumi. Iper-raffinate, iper-decorate, iper-patinate e iper-zuccherate, hanno fatto dell’eccesso e dell’accessibilità perenne la loro cifra; così, come accade per tutti i cibi superflui e saturi di calorie vuote, non saziano e non soddisfano mai, in un ciclo glicemico vizioso che accende/spegne l’appetito e inibisce il palato.

Non è dunque un caso che la prima impressione nel varcare la soglia d’ingresso dello Spazio E_Emme sia quella di ritrovarsi nei locali di una pasticceria: perché è proprio da questa specializzazione culinaria – la stessa che il celebre chef e scrittore Marie-Antoine Carême definiva la branca principale dell’architettura – che Baragliu, Pigliapochi e Spatola hanno mutuato le sembianze delle loro opere; lavori che, per citare ancora le parole di Anna Oggiano, si offrono al pubblico nella migliore delle parvenze possibili: «ammiccanti e seducenti, solitari come i diamanti, preziosi come cammei simili a bon bon commestibili». I membri di IDEM Studio hanno difatti “cucinato” un totale di centocinque manufatti di piccolo formato (trentacinque per artista) sulla base di una selezione di materiali e tecniche che rimanda sia alle singole specificità stilistiche ed espressive sia alla reciproca citazione e contaminazione: mdf, colore acrilico e resina bicomponente per Baragliu (pastiche #); gesso, colori acrilici, colori vinilici fluorescenti e cera d’api per Samuele Pigliapochi (pastiche %); marmo, tele sezionate, smalto industriale, pellicola iridescente, gesso e vernice acrilica per Angelo Spatola (pastiche *). Tanto piccine quanto eclatanti, esito di una rielaborazione dell’immagine che ne prevede ogni possibile reductio ad unum – processi di semplificazione e sottrazione, esplorazione della bidimensionalità, indagine sulla linea e sul colore, riconduzione a una forma modulare, distruzione e ricostruzione geometrica, etc. – le opere realizzate dal trio artistico attirerebbero l’attenzione di Ferran Adrià, inventore di quella cucina molecolare che proprio sulla destrutturazione degli alimenti e sull’alterazione delle loro sembianze ha costruito in tempi non sospetti un impero sensoriale oltre che economico. Comune all’attitudine dello chef catalano, tra l’altro, è proprio la ricerca del disorientamento percettivo: simili a prodotti da forno comuni, a delizie incartate a mano e a specialità regionali, adagiati su altrettante mensole in metallo riflettente, i singoli pasticheseguono un’installazione orizzontale – che quasi li colloca più ad altezza di bocca che di sguardo – e un’altra diagonale – su e giù lungo una scala che ne ridefinisce ogni volta le gerarchie in base alla posizione e alla distanza assunta dallo spettatore. Finché ogni suggestione, infine, converge verso il fondo, su un apposito piedistallo che si fa vetrina per l’ambiguità formale al suo apice: l’identità di IDEM Studio, già parcellizzata in oltre un centinaio lavori autografi, ritrova “unità e trinità” nella sovrapposizione e nei pressi del punto di fuga della galleria, laddove i simulacri assortiti di dolci un po’ trash e un po’ chic – un marshmallow (Pigliapochi), una chocholate bar e un mignon (Spatola), un doughnut e un candy-stick (Baragliu) – convivono in un’overdose visiva e calorica che omaggia l’estetica kitsch nel modo più accattivante, onesto e consapevole possibile.

Straniante quanto basta, Pastiche è una mostra che fa chiamare in causa – e molto opportunamente – un altro vocabolo di ascendenza brechtiana: ospitata com’è all’interno di uno spazio in puro stile white cube, essa è a tutti gli effetti un’occasione “gastronomica”, epperò finalizzata proprio alla messa in discussione di tutti quei processi votati al mero commercio che hanno condotto al depotenziamento dell’immagine (dell’arte) e del nostro approccio nei suoi confronti. Il pregio del progetto, esaltato da un allestimento assai indovinato, sta dunque nel mettere in crisi la capacità dello spettatore di decodificare e risolvere da sé una molteplicità di sollecitazioni ambivalenti; un guanto di sfida che riuscirà a raccogliere se non si soffermerà sulle mere apparenze di lavori che sembrano attirarlo per il solo gusto di respingerlo («in cerca di complicità e arrendevole consenso, sgargianti e ambigui, cercano casa e nuovo padrone offrendo l’unica merce che si produce e si vende (ma non si può comprare): la fantasia»). Dopotutto, com’è nelle sue evidenti intenzioni (e come peraltro si nasconde tra gli ulteriori significati del vocabolo da cui mutua il suo titolo) questa mostra vuole essere anche una faccenda complicata, un “guaio” reso intrigante dall’atto stesso di districarsi al suo interno: il suo indovinello critico è rivolto a tutti i visitatori, soprattutto a quelli che mai avrebbero immaginato di ritrovarsi a tu per tu con un simile pastiche.
Cagliari, Spazio E_Emme



Photo Cover Marco Fronteddu

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