Laboratori del Teatro Lirico di Cagliari
OPERA-I

Teatro
“Un mondo di oggetti perfetti sarebbe terribile. Le cose che si collezionano sono spesso rotte, inutili, obsolete. Ma le amiamo perché fanno sognare” - Konstantin Grcic

Avete presente Hoppípolla degli islandesi Sigur Rós? Un gruppo di effervescenti ultra settantenni si diverte a dipingere sui muri con bombolette spray, lanciare petardi, saltare pozzanghere, costruire spade di legno. Parodia fortissima per raccontare l’unica grande verità: siamo tutti bambini. Per sempre. Solo che qualcuno se lo ha dimenticato. O se ne vergogna. E che ci piaccia o no il mondo è fatto di balocchi. Ognuno sceglie i suoi. Anzi, ognuno si costruisce i suoi. E lo fa con quello che trova. E sono spesso pezzi destinati all’oblio di una cantina o peggio rimasugli da rumenta. Così, se a mettersi insieme sono quei bambini che hanno fatto del teatro la loro raison d'être, ti ritroverai circondato di balocchi incredibili che raccontano di mondi fantastici e lontanissimi. Di mondi dove fuggire dalla follia dissonante del mondo.

Opera-I THotel
Sono le sette di una fresca sera di fine marzo quando arrivo all’ingresso del T-Hotel, moderno e prestigioso albergo nel centro di Cagliari.
Qualche giorno prima ho ricevuto una telefonata. Dall’altro capo del telefono Sabrina Cuccu - la talentuosa scenografa-architetto con la quale ho avuto il piacere di collaborare per la Turandot al Teatro Lirico di Cagliari - che mi dice: «Noi del Teatro Lirico abbiamo organizzato una mostra al T-Hotel. Inaugura giovedì 19: devi esserci». Non so assolutamente nulla in più. Nessun indizio se non la curiosità mordente di scoprire cosa troverò in quell’immenso open space che è la hall dell’elegante albergo di Via dei Giudicati. Superate le porte girevoli vengo subito inondato dal brusio, i rumori e i colori, delle persone che hanno accolto l’invito al vernissage. Un totem verticale dai colori rossi, che rimandando in qualche modo al libro Sciola: Genesi della Turandot , porta il titolo della mostra: OPERA-I.
Salvatore Campus, responsabile tecnico del Teatro Lirico di Cagliari, venendomi incontro mi racconta sorridente: «È proprio così. Noi non siamo artisti. Siamo operai. Il titolo della mostra prende spunto proprio da questo. Ognuno di noi, nell’ambito delle proprie competenze, ha voluto raccontare, con materiali di scarto, un’opera o un percorso di questo nostro mondo che è il mondo del teatro».
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Così proprio mentre parliamo ci indica la sua opera: E lucevan le stelle, omaggio alla celebre romanza della Tosca. «Io lavoro all’ufficio tecnico. Questa teca di plexiglass, interamente realizzata da vecchi portamanifesti, è stata riempita di vecchie lampade esauste provenienti da proiettori e foyer. Lo stesso cavo che alimenta le lampade è quello rivestito in cotone di un vecchio ferro da stiro».
«Io mi ritengo un artigiano, e spero di meritare questo termine perché questo è un termine molto alto»
E chissà quanti abiti di scena avrà attraversato quel ferro prima di trasformarsi in qualcos’altro. Come negli abiti del Sipario di Marco Nateri. Il favoloso costumista che ci aveva fatto sognare già coi costumi orientaleggianti della Turandot qui racconta, attraverso una cascata di prototipi di costume in tela ghinea volutamente fané, il grande e pesante telo che occulta agli occhi del pubblico le scenografie sul palco prima che la rappresentazione abbia inizio. E Marco, con il suo bel modo di raccontare le cose, entra subito nei dettagli: «Questo sipario, questa installazione che io ho creato per questo evento, subirà a cadenza mensile e sino al 20 giugno, delle variazioni. Ad aprile ci sarà un intervento che ho voluto chiamare Applausi. E che cosa succederà? Succederà che sopra il sipario verranno proiettati tutti gli applausi dei grandi divi dell’Opera Lirica, della Danza e del Teatro di Prosa. E quindi questo sipario vivrà degli applausi dei grandi interpreti nazionali e internazionali del Teatro. Nel mese di maggio invece ci sarà un omaggio a Sant’Efisio. A giugno infine si chiuderà con un omaggio a “Cagliari Città Turistica”, e qui racconterò Cagliari. La mia Cagliari».

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Ma come è stato raccontare questo mondo fuori da quel mondo? Come è stato portare qui, all’interno dell’albergo, la costruzione di questo racconto?
«Lavorare qui dentro, costruire tutto questo è stato interessante», risponde subito Nateri. «Questi sono spazi molto importanti da un punto di vista architettonico, ma allo stesso tempo sono anche spazi molto difficili». Le opere sono così bene incastonate nel contesto quasi da apparire mimetizzate. «Abbiamo cercato in tutti i modi di fare in modo che i visitatori avessero l’impressione che tutto questo esistesse da sempre» ci spiega Simona Campus, curatrice della mostra. È proprio vero. Mentre il mio orecchio viene rapito dalle note di un pianoforte a coda suonato da una giovane pianista, non mi accorgo che tutt’intorno è stata circondata di opere e installazioni.
Proprio alle sue spalle un grosso ragno, con fare poco rassicurante, discende La scala di seta, opera di Raffaella Mattana.
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Davanti al piano, a fare da contraltare a quelle note, Redetzky-Marsch di Cristian Soru. Strumenti ad arco e fiato interamente realizzati assemblando viti e bulloni, rondelle e vecchi chiodi. Davvero bellissimi. Ancora più indietro una gigantesca cascata di pellicole: Janàcek, di Sabrina Cuccu. Sono nastri che si contorcono, si mescolano o meglio: si ingarbugliano!
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Così come ingarbugliata è stata l’esistenza dell’uomo a cui, la direttrice degli allestimenti scenici del Lirico di Cagliari, ha voluto rendere omaggio. Uno dei più grandi compositori del secolo scorso: il maestro Leoš Janáček. E si respira ancora musica. Note. Frammenti di pentagrammi, spartiti: …vorrei volare sino al sole, se avessi le ali. Ali di carta. Sono le ali di Papageno. Carola Ciani racconta così il suo amore per Mozart e per quell’opera da fiaba e senza tempo che è Il Flauto Magico.

C’è di che commuoversi, di che sognare e fare incontri anche con… le streghe cattive! La calunnia è un venticello, dall’aria di Don Basilio nel primo atto del Barbiere di Siviglia, che ha visto insieme i reparti di sartoria, trucco e parrucche del Teatro. Elisabetta Boi, Daniela Guiso e Marco Saba. Sulla struttura di un vecchio manichino, hanno realizzato la suggestiva – e inquietante - presenza antropomorfa e multifaccia che ti accoglie proprio davanti all’ingresso con le sue braccia tentacolari.
E allora pinte carnivore con le fauci spalancate, affamate come fiere. Meduse galleggianti nello spazio e un fiume di opere fatte per farsi vagheggiare dai nostri sguardi rotondi.

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Simona, cosa avete voluto raccontare? Simona Campus è ora seduta davanti a me: «L’importanza dell’arte. E del fatto che proprio l’arte è l’obiettivo ultimo, non soltanto a livello utopistico ma a livello pratico di chi fa questo mestiere. Quindi secondo me è proprio questa la cosa importante. Questo è un gruppo di persone che si sono messe ulteriormente insieme in questo lavoro che fanno già insieme tutti i giorni dell’anno. Hanno voluto provare a confrontarsi su un piano diverso da quello della quotidianità. E secondo me ci sono riusciti in maniera assolutamente straordinaria».

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Guardandosi intorno Simona sorride. Non nasconde una certa evidente soddisfazione. Glielo leggi negli occhi, che sorridono con lei. «Misurarsi con la creatività in questo caso non è stato un passatempo. Ma in un momento così difficile, così complicato, per la vita privata dei singoli ma anche per la collettività – perché evidentemente questo è un problema anche sociale oltreché politico – questo diventa un modo per salvarsi la vita. L’arte che ti salva la vita. Questo è il messaggio forte che emerge da questa operazione. E l’altra cosa straordinaria, che per me è stata la cosa più importante, la più commovente, da curatrice è stata che nessuna di queste persone ha voluto definirsi artista. Si sono definiti: operai. Il titolo della mostra non nasce dalla curatrice ma nasce dai partecipanti alla mostra. Loro hanno voluto definirsi operai, cioè gente che sa fare un mestiere e lo mette a disposizione della cultura, dell’opera e dell’arte. Con molta umiltà e senza la pretesa di presentare dei capolavori il messaggio che hanno voluto far passare è questo: abbiamo bisogno dell’arte».

Artisti che non vogliono essere chiamati artisti. Artigiani che vogliono essere chiamati operai. Sono quelle esistenze che vibrano di normalità. E sono quelle vite complesse e articolate, uniche e irripetibili, che durante la stagione passata, hanno fatto emozionare, piangere di gioia e fare numeri da record al Teatro Lirico di Cagliari.

«La cosa straordinaria è ritrovare insieme tutte queste persone» a parlare è il maestro Pinuccio Sciola. Sta andando via. Volgendo un ultimo sguardo verso lo spazio espositivo, verso quei ragazzi e ragazze che hanno permesso tutto questo, sottolinea: «Queste professionalità diverse, specializzate e innamorate del lavoro che fanno. Il rapporto umano che si è creato grazie al lavoro. Alla fine tutto si condensa negli sguardi nei sorrisi e negli abbracci e nell’affetto che ci hanno circondato. E non vorrei mai che tutto questo venisse disperso perché qui non si riesce a capire l’importanza della cultura. I politici, o chi per loro, invece di tagliare dovrebbero incrementare e agevolare questo tipo di produzione culturale indispensabile per l’essere umano».
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