MOZDZER + CAMPANER

isola delle storie

CALA GONONE JAZZ FESTIVAL

Quando la musica da elisir di bellezza si fa anatomia dell’anima. A Cala Gonone per vivere la vertigine di un sogno di mezza estate.

Ci sono nomi della musica, qualsiasi musica essa sia, che quando li senti nominare inizi a sognare.
E poi ci sono quei nomi, non di una musica qualsiasi, che non solo ti fanno sognare e ti catapultano in mondi immaginari ma, ad ascoltarli, ti mettono i brividi. Così ti capita di leggere un giornale e di trovare, tra le pagine, una locandina del Cala Gonone Jazz Festival con su scritto: 31 Luglio, Ore 22:00 Teatro Comunale, Gloria Campaner e Leszek Mozdzer.
La prima cosa che pensi è: hanno sbagliato, ho visto male, anzi no, sto sognando. E poi ti finisci il tuo caffè, passi alle altre pagine del giornale, col cuore che inizia ad andare per conto suo. Si, ma poi ritorni su quella pagina e rileggi: Leszek Mozdzer e Gloria Campaner!
Cala Gonone arrivo!

Il teatro comunale sta nel cuore di questo piccolo gioiello della costa orientale sarda. In un cartellone ricco di nomi e di appuntamenti importanti leggi poi che alcuni concerti verranno eseguiti nelle bellissime grotte del Bue Marino. Il teatro inizia a riempirsi ma non dei numeri che ti aspetteresti con due nomi così enormi, così ingombranti. La prima a salire sul palco è lei, Gloria Campaner: broncio carnoso, bluse bianca, tacco a stiletto e gambe strizzate in lunghi pantaloni neri. Neri come i pregiati legni dei due pianoforti che si contendono il palco. Uno fronte all’altro. Il suo assolo ammutolisce i sospiri, zittisce le chiacchiere. Un preludio che crea attesa. Al termine del lungo applauso entra lui: «Il mio nome è…» e inizia biascicare qualcosa di volutamente incomprensibile per dirci che in realtà, il suo è un nome che non è facile pronunciare per chi polacco non è: Leszek Możdżer. Abito grigio, maglietta nera, Sneakers alte. E biondo, biondissimo con quegli occhi azzurri profondi, liquidi. Liquidi come il suo preludio che mi fa piangere al primo attacco, accapponare la pelle. Sprofondare nella mia poltrona dimentico di quello che sono. Di chi sono. Io non sono più la. Sto visitando mondi lontanissimi. Un altro tempo. Il rientro della Campaner sul palco è l’incontro tra due universi, la Classica con il Jazz. La fusione totale del genio col talento, della carne con il cuore.

C’è qualcosa di sensuale, di romantico e scarlatto. Un Clair de Lune che diventa il territorio dove le due anime si fondono. Dove quattro mani suonano come se ce ne fossero cento. Seduti sulla stessa panchetta, sguardi temperati dall’amore e mani che si sfiorano. Sono qui per la prima volta in questo che anche loro definiranno poi come “un esperimento”, ma è come se si conoscessero da sempre. Magia, potenza e catarsi di questa musica.

Espressioni cariche di pathos antitesi dell’atarassia. I loro capelli indomiti si incrociano come filamenti vegetali, vivono di vita propria come se, in qualche modo, vogliano seguire il fluttuare e il ritmo di quelle partiture. Da Paganini a Debussy passando per Komeda (straordinario capolavoro nella discografia di Możdżer) sino al sincopato Libertango di Astor Piazzolla. L’esperimento è finito. Volato via. Nessuno di noi si è accorto del tempo che è passato. Vorremmo il bis, non di un solo brano ma di un altro concerto ancora. Anzi vorremmo non uscire mai da questo sogno.
Scriveva Khalil Gibran: “Viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto il resto è una forma d'attesa”.
Questa sera, almeno per una sera, questa attesa è finita.

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