Angelica Grivel

SANTIFICARE LE FESTE

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

A Roma è un tiepido pomeriggio domenicale di luglio in molle dissolvenza. La pavimentazione in sampietrino, della cui fattura a sobbalzi sono ancora poco esperta, restituisce un suono gradevole al passo smorzato dalle sneakers che vesto.

La Basilica di Santa Maria in Trastevere è un luogo vistoso, torreggia sovrana all’interno di una piazza di transito dalle dimensioni modeste. Quasi prossimo a uno degli ingressi laterali della Chiesa, invece, un palcoscenico, animato da un giovane gruppo intento nell’improvvisazione accennata di frizzanti brani estivi.

Tale vista mi comunica uno sgradevole sentore di disorientamento. Percepisco una malinconica frizione tra l’immobile e solenne luogo di culto e il pubblico rumoroso, in crescente affluenza verso il palco già vivace.

Mimù procede ancora celermente; per un momento, indugia con perplessità su quello che anche lei ritiene un connubio non proprio debito.

La funzione religiosa è prossima all’esordio, a quanto pare. Mimù, ansimante, si abbandona su una panca, in una posizione neutra tra le molte bancate vuote. Sento subentrare in me un moto di triste pietà che comprime il cuore: una consistente parte degli astanti si aggira con fare esplorativo all’interno della Chiesa, sfruttandone la bellezza per fotografie e ricordi di tipo turistico. Non poche persone abbandonano la struttura, una volta che ne hanno individuato e immortalato gli angoli artistici di rilievo.

Una donna dalla corporatura stretta e smilza si industria nella distribuzione di pagine pinzate a mo’ di libretto ai pochi presenti. Mimù afferra un plico con mano ferma, con l’intenzione di spartirlo con me. Nel suo abito sobrio colgo una specie di accollata oppressione, penso stia tentando di governare un serpeggiante disagio che a tratti, nel corso della celebrazione, si manifesta in stizza, alternata a espressioni di diniego sul viso.

Mi riprometto di domandarle esemplificazioni più perspicue in seguito, e concedo alla bellezza della cerimonia un rapimento. Da sempre, la Messa in quanto tale funge per me da culla. Stavolta, partecipo di una forma di culto della quale ancora non conosco esperienza: si tratta della liturgia bizantina di San Giovanni Crisostomo, caratterizzata dal ruolo primario affidato al canto, che plasma la cerimonia nella sua interezza. Permetto alla magnificenza della solennità di suggerirmi immagini e tendo a uno struggimento che non mi spiego. Oggi, alla mia uscita dalla Chiesa, non provo la consueta serenità, ma mi travolge una sensazione di felice turbamento.

Sulla via del ritorno, prima di cedere a una qualunque forma di ciarliera leggerezza, Mimù mi scaglia la propria interpretazione di ciò a cui abbiamo appena assistito: ‘Mi sono sentita altro da ciò che vedevo. Questa non era partecipazione, ma la manifestazione di uno spettacolo al quale assistere con inerzia e silenzio. Una meraviglia estetica, una ritualità impeccabile condita di rigori aurei. Eppure, come argomentare lo straniante fatto che la maggior parte delle azioni dei sei sacerdoti sull’altare non fossero visibili all’assemblea? Come sperimentare un qualsiasi tentativo di accompagnare il coro nel suo canto, se era distante dai fedeli?’

Rifletto. Forse anche lui, Dio, preferirebbe anteporre alle cadenzate e interminabili modulazioni del culto il subitaneo sussulto di un pensiero di gratitudine, lo spasimo d’interiorità che sgorga dal moto di dolore. Forse, tutte queste lagnose espressioni di grazia Gli vengono ad uggia. Anch’io, come Lui, potrei sentirmi offesa dai barocchismi del rito, se non fossi fatalmente e inspiegabilmente commossa.



Come percossa dalla pervasiva pregnanza di questo stato d’animo, mano nella mano con Mimù, cammino silenziosa per i circa cinquecento metri che ci separano dal ristorante. Mimù canterella un motivetto, assorta, come è sua consuetudine quando si trova gradevolmente a proprio agio con se stessa e guarda il mondo con il sorriso.

Il locale che ci accoglie per la cena di stasera è luminosamente ospitale e ravvivato dal chiacchiericcio discreto dei commensali distribuiti per la sala.

L’attesa dei convitati non si rende gravosa: trascorrono pochi attimi dal nostro arrivo, prima che li vediamo sopraggiungere. Lui, accademico e traduttore attivissimo, riconosciuto dai più in quanto sommo poeta, avanza con una certa prudenza nell’incedere, sguardo ialino e una nuvola fulva di capelli ancorché rada; lei, sua moglie, professionista del diritto, lo affianca e lo supera con andatura vigorosa, l’eleganza asciutta delle sue movenze, l’ampio sorriso a complemento. Mimù si porge al loro abbraccio con la felice spontaneità di chi incontra quella speciale tipologia di amici a cui non serve mai dare spiegazioni: tutto è raccolto in una solidità relazionale costruita nel tempo.

Avverto l’ansante pressione di una mia fatidica esigenza performativa: è un bisogno che impelle, quando sento di essere in dovere di dimostrare un’altezza o una profondità propriamente mie, nel timore che il mio eventuale interlocutore non sembri interessato a saggiarle. Eppure, la tensione sembra scivolare, nel momento in cui approccio l’affabilità entusiasta della coppia. Il loro modo di proporsi a me è quasi genitoriale e protettivo, accompagnato da una certa curiosità, che leggo sincera, di impattare e approfondire la mia persona. A tavola, Mimù ci osserva dal suo angolo, diagonalmente opposto al mio, intenta a brancicare una fetta di pane, gli occhi accesi di un compiacimento. Capisco che sia felice che io mi trovi qui, a gentile contatto con intelligenze vere, con le quali intrattiene un rapporto di salda fiducia e palpabile stima.

Il luogo in cui ci troviamo offre un menu peculiare, come non ce ne sono a Trastevere, costruito su pietanze il cui ingrediente principe è sempre rappresentato dall’uovo. Nessuno emula l’altro nella scelta dei piatti. Di mio, tento un avocado ripieno di tuorlo, accompagnato da una granella di pistacchio e lime. La serata prosegue, tra avvincenti disquisizioni letterarie alternate a divertite colloquialità. Io, pur non abbandonando la mia postura impettita, mi concedo infine all’agio.

D’improvviso, in un momento di inviolabile complicità femminile tra le due signore al tavolo, lui adocchia il mio avocado, al quale io ho abdicato ormai da un po’, forse per via del coinvolgimento dato dalla bellezza briosa dei dialoghi che hanno intessuto la serata. Ed è così che lui, con un garbo paterno nei modi, mi dice: “È da un pochino che quell’avocado mi fa gola. Mi autorizzi ad assaggiarne un pezzo?” Con un sorriso, gli propongo di prenderlo tutto, quell’esotico frutto piriforme che signoreggia intonso sul mio piatto, felice dello scambio confidenziale e troppo concentrata a non perdere nemmeno un frammento di questa piccola assemblea così speciale. Lui, con una risata di gola, apprezza, e mastica con gusto.

Nicchie di complicità.

Usciti dal locale, l’ora è tarda. Dunque, spicci saluti, ma con lo slancio genuino che promette un futuro. Assumo la convinzione dell’esistenza di un più dolce rapporto di familiarità tra noi, privo di quei formalismi che tanto temevo solo poche ore fa.

Percorriamo la via del ritorno, il mio braccio che avvolge le spalle di Mimù. Silenzio. Non un commento su questa giornata, ma, dentro di me, la testa frulla. Laddove aspettavo serenamente la semplicità frugale di un rito noto, sono stata colmata e vinta da un virtuosismo inopinato. Viceversa, ho trovato la gioviale armonia di un incontro musivo, laddove l’aspettativa era di una ritualità di maniera.

Santificare le feste.

Angelica's cover courtesy of Antonio Maria Dettori


SCRIVI UN COMMENTO


FORSE POTREBBERO INTERESSARTI ANCHE