MIO FRATELLO RICCARDO

angelica grivel

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

“Mio fratello è una di quelle persone che hanno la pericolosa capacità di strizzarti il cuore. Quando soffermo lo sguardo su Riccardo, individuo in lui un’armonia che in nessun altro trovo.”

Riccardo, malgrado calzi i suoi esili tredici anni da appena due mesi, pervicace continua a sprigionare un tenue profumo di latte e di sogni. Un sentore, il suo, che vorrei restasse intatto e inviolato in eterno, che si attaglia alla attuale plasticità armonica del suo corpo e alla leggiadria filosofica della sua anima.

Non perdurerà, ma non posso neppure intrappolarlo in una boccetta, defluirebbe nel fanatismo. Come ogni cosa, e in particolare come ogni affetto nella vita, di esso non resterà nulla, se non la memoria.

Riccardo è una di quelle persone che hanno la pericolosa capacità di strizzarti il cuore. Con lo sguardo terso, le mani incerte, la voce minuta, appena sul ciglio del mutamento. Quasi tutto, in lui, suggerisce il fragile pensiero della precarietà dorata: il suo splendore, da immortalare ora, ancorato fermamente al bambino giocoso, lascia trapelare qualche appena percettibile preludio all’uomo che sarà.

Nel rapportarsi a Riccardo vige una sorta di prerogativa, mai scritta, e che tuttavia aleggia silente su di lui e lo accompagna sin dagli albori del suo percorso esistenziale: solo chi è in grado di riconoscerne la luce effettiva, trascurando certe ottuse caparbietà e attitudini citrulle della sua età effimera, scivola spontaneamente nell’affetto e nella tenerezza nei suoi confronti e irresistibilmente non può esimersi dall’adorarlo. Viceversa, Riccardo porge la propria benevolenza e le premure affettive con una generosità a raggio tanto ampio da risultare sovente ingenuo.

Quando soffermo lo sguardo su Riccardo, individuo in lui un’armonia che in nessun altro trovo. Il volto dalla struttura levigata e simmetrica è incorniciato da lucidi capelli castani, fondamentalmente lisci, ma che tradiscono qualche cenno a un passato da infante riccioluto, a ombreggiare la mandorla che gli foggia gli occhi. Analogamente a quelli di nostra madre, il candore niveo della sclera è in netto contrasto con il bruno dell’iride. Le sopracciglia, raramente aggrondate, ali schiette a complemento di sguardi fiduciosi. Le labbra, nel perfetto equilibrio maschio tra carnoso e sottile, sempre inclini all’increspatura del sorriso, che, formandosi, genera due fossette sulle guance fresche. E dunque il naso, una miniatura orgogliosamente impettita, consentaneo al suo viso. Il profilo leggiadrissimo del suo corpo segue quasi una logica matematica: dal busto esile scorrono due braccia longilinee e asciutte, e dalla vita in giù si estendono gambe lunghe, affusolate, le cui rotule non ne rappresentano la solita, fatale, irritante interruzione, bensì un musivo incastonamento.

Che sia proprio questa sua sfacciata eppur garbata eufonia, a condannarlo a non ottenere la complicità subitanea di un qualsivoglia coetaneo? Oppure è proprio la sua naturale vocazione all’astrazione, o per inesorabili rapimenti da schermi fluorescenti e beotissimi youtuber, o per desiderio di riassaporare, in raccoglimento, attimi di apicale bellezza vissuta?

Riccardo conta già due contusioni importanti nell’anima sensibile. Una prima volta, ha maturato la consapevolezza dell’abbandono. Accadde quando frequentava la prima media. Scelse di affiancarsi soltanto a un ragazzino, suo compagno di studi, negletto al resto della scolaresca poiché portava con sé il gravoso e ingiusto fardello della malattia legata al cuore.

La scelta di Riccardo, così radicale, commovente e impegnativa, comportò conseguenze non indifferenti per lui stesso che l’aveva compiuta. Dedicare le proprie attenzioni, il proprio tempo e una devozione coriacea a una sola persona, peraltro impregnata di troppi disagi nel corpo e nell’anima, escludeva ogni tipo di relazione con gli altri compagni di classe, i quali, emarginando con viltà il ragazzo problematico, scorgevano d’istinto anche in Riccardo l’estraneità e lo respingevano. Mentre gli altri scalmanavano le loro energie adolescenziali dietro il pallone , Riccardo, con una strenua fierezza e una resilienza senza affanno, persisteva nel suo frequentare il suo solo amico. Seduti, insieme, all’ora di ricreazione, in corridoio. Tra i due fu idillio genuino. Sino al drammatico attimo in cui il delicato virgulto di complice intesa fu reciso, in un fremito di apprensione spaventata, da una mamma impulsivamente inconsapevole e travolta da divergenze con il corpo docente. Inopinatamente, il giovane cagionevole amico fu iscritto in una nuova scuola , ritenuta più confacente al suo disagio e al sovraccarico immane di tensione genitoriale. Si era alla fine del primo quadrimestre.

Il cuore di Riccardo ne pianse per mesi, marchiato da un tradimento illogico e sgomento che tantomeno l’amico, innocente e impotente, avrebbe voluto. Riccardo non gli rovesciò mai la responsabilità dello scisma e lo tiene ancora nella memoria, imprigionato in una bolla tra il lucore giallo e chiazze di grigio ardesia. Ma lo strappo fu definitivo per la sua serenità e il disagio dell’abbandono prese concretamente il posto dell’amico scomparso con voti meno brillanti rispetto a quelli dei mesi della complicità e della gioiosa affezione tra i due.

Congedata la prima media, con uno spiccio convegno familiare fummo tutti e quattro concordi nel suggellare la decisione di un nuovo inizio, altrove. Riccardo era evidentemente consenziente: ai suoi occhi, la prospettiva di un cambiamento si mostrava corroborante.

Dopo un accurato procedimento selettivo, la scuola d’elezione sembrava presentare una discreta quantità di crismi positivi. Per la prima volta nella storia del percorso scolastico di Riccardo, la scelta cadde su una scuola pubblica, di periferia ma con lo stimolo del riscatto: biblioteca fornita, aula magna ariosa, insegnanti madrelingua stranieri a supporto dei docenti canonici. Nonostante all’esterno si presentasse come un parallelepipedo tristemente disadorno, all’interno beneficiava di molta luce, quasi la raccogliesse in sé e la contenesse, effondendola nelle aule.

Rincuorato da tali premesse, che al suo sguardo apparivano più come dolci promesse, Riccardo fece il suo ingresso armato del sorriso più propizio. Era tutto un “Ehilà, come butta?” di trepidante entusiasta speranza. Precipitò dall’utopia al disincanto già dal primo giorno di scuola.

Infatti, l’ospitalità che gli fu riservata poté soltanto raggelare quella aspettativa, riducendola al tempo di un barlume, e trasmutarla in una espressione contratta di rancore e atrabile. I coetanei compagni di classe mostrarono dall’immediato di nutrire una serpeggiante insofferenza nei suoi confronti, ma la celavano con la perfidia; nell’occhieggiarlo con sguardi dardeggianti, ecco che ora lo soprannominavano ‘albero’, a causa delle sue articolazioni inusitatamente snelle , ora lo appellavano “Gesù Cristo” per via della fluente capigliatura che sfiorava le ampie spalle, e che lo avvicinava alla più classica figura cristica del giovane Nazareno. Il profluvio di sghignazzi proditori divenne nei giorni il rumor bianco della sua solitudine. Riccardo non replicava, se non con qualche laconica parola tagliente.

Che stesse meditando una reazione grandiosa per il futuro? Finalmente, come riemergendo da una lunga notte di sogni confusi, anche per lui arrivò il momento della effettiva reazione. Una mattina, l’incedere plastico e svagato di Riccardo fu ostacolato, sulla soglia dell’aula, da un ragazzetto bullo in pectore dalle fattezze irrisolte, ma con una tendenza al nerboruto, forte delle ombre verde rame a anticipare dei baffetti pre puberali e di una tracotanza emotiva a fare il paio con una prepotente esuberanza ormonale. Ciò nondimeno, con un tempismo cronometrato dall’esasperazione, Riccardo lo appiattì al pavimento. D’impeto, per la prima volta, affiorò la regola precipua del vero judoka: difendersi, mai attaccare. Difendersi, di grazia! Con uno spontaneo e repentino intreccio di gambe e braccia, esito di una cintura arancio verde conquistata negli anni, Riccardo gli fece perdere equilibrio e alterigia. Quello esplose in accuse gnaulanti con l’insegnante che accorse proprio in quel momento dalla solita macchinetta del caffè, fumante, al pari del contenuto del bicchiere ancora in mano.

L’esercizio del(lo) judo, la cui pratica così opportunamente callistenica per il suo animo e per il suo corpo, non scampò Riccardo dalla sua prima esperienza nel temuto ufficio del preside. Il dirigente, tuttavia, aduso a tali episodi, gli rivolse un discorso collaudato sul tema della non violenza, con un timbro atono e tuttavia vibrante di una certa perentorietà. Riccardo tesaurizzò le sue parole, conciliandole con le ormai platealmente riconosciute capacità da judoka e avvicendandole a corsi avanzati di studio di dito medio e gesto dell’ombrello con nostro padre, piuttosto abile in materia. Da quel momento, sebbene per Richi non furono certo sorrisi lunghi da un orecchio all’altro, finirono le arbitrarie ostilità. Riccardo perdura confidente, ma, cauto, serba la possibilità di un’isola.

Angelica's cover courtesy of Stefania Paparelli

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