ALBERTO GIACOMETTI
A UN PASSO DAL TEMPO

Alberto Giacometti

LE GRANDI MOSTRE DEL MAN

Tra donne immote e idoli del passato, il maestro svizzero ci racconta di mondi lontani nel tempo, ma non nello spazio. Per farci riflettere sulle fragilità della nostra esistenza.

Una mostra corale, polifonica, che ha portato a unire realtà espositive così apparentemente distanti ma così straordinariamente vicine. Dai bronzetti nuragici, del museo archeologico di Cagliari, passando per il Peggy Guggenheim di Venezia sino al Kunsthaus di Zurigo.
Una mostra che parte da un testo. Da una frase del maestro Giacometti: “Tutta l’arte del passato, di tutte le epoche, di tutte le civiltà, apparve davanti a me. Tutto era simultaneo, come se lo spazio avesse preso il posto del tempo”.
Alberto Giacometti, Museo Man Nuoro Quindi? «Una circolarità in cui, il maestro svizzero», ci spiega il direttore del MAN, Lorenzo Giusti, «con un unico sguardo poteva catturare tutta la storia dell’Arte. L’Arte del passato. E questo sguardo abbagliante è evocato da questo allestimento bianchissimo».
Maurizio Bosa è l’architetto che ha progettato questa azzeccatissima combinazione cromatica. È come se avesse voluto ripulire gli spazi da tutto quello che poteva in qualche modo distrarre. Le opere si stagliano in maniera netta, decifrabile, con il bianco che è ovunque. Dalle pareti ai soffitti, e sul pavimento una morbidissima moquette bianca che ti da l’impressione di vagheggiare con lo sguardo in un mondo quasi onirico. «È stato un allestimento molto impegnativo», sottolinea Gianluca Mele, responsabile dei laboratori didattici del GLO all’interno del MAN. «Questo bianco luminoso è l'esatto contrario dell'allestimento che usammo per la mostra di Fabrizio De Andrè, che fu invece contraddistinta dal nero più assoluto».

Allestimenti scenici quasi teatrali. Il MAN non ha mai avuto paura di osare. Stravolgere. Anticipare.
Un ritratto della curatrice, Chiara Gatti, davanti a una delle sue opere preferite: la testina di Ottilia «In questo momento ci sono altre mostre di Giacometti allestite in altre località», ci racconta Chiara Gatti che insieme a Pietro Bellasi sono i curatori di questa mostra. «Ce n’è una importante a Milano, un’altra a Vienna e ce n’è stata una a Roma di recente. Giacometti è un autore molto amato. È amato dal pubblico, è amato dalle istituzioni che amano esporlo perché il pubblico lo ama.
Noi, qui al MAN, abbiamo una mostra che è molto diversa da quella che stanno esponendo e affrontando gli altri musei. È una mostra che è frutto di una ricerca piuttosto lunga e che indaga un lato molto particolare della ricerca di Giacometti; e cioè questo suo rapporto e il suo amore per il mondo arcaico. E sono le figure che di lui ci intrigano di più. Queste figure allungate, queste silhouette, queste ombre erose nella materia come se fossero dei fili d’erba, delle lame o dei tralicci, ombre di corpi che lo hanno reso celebre hanno un origine antichissima. Sono tutte legate a questo suo attaccamento per un passato remoto.
Alberto Giacometti, Museo Man Nuoro Il suo studio per questo passato si svolge sin da quando Alberto è piccolissimo, attraverso la lettura dei libri nella biblioteca del padre. Qui acquisisce una serie di nozioni su quelle che sono state le forme d’arte del passato, che lo affascinano e lo conquistano sin da ragazzo. E disegna. Disegna in modo quasi istintivo ai margini dei libri e copia. All’inizio copia. Copiare gli serve per capire meglio dice. Alla fine questa copia diventa qualcosa di intimo. Qualcosa di molto suo per trasformarla in qualcosa di personale. In questa mostra abbiamo restituito a Giacometti le sue passioni: quella per il mondo egizio, per l’età del ferro, che qui in questo luogo ha un valore particolare. È per questo che abbiamo recuperato questi straordinari bronzetti nuragici dal museo di Cagliari e accostati ai bronzi etruschi. Per dimostrare quanto un età remota come quella del ferro fosse una sua passione. Giuseppe Marchiori, che è stato un grandissimo storico dell’arte, che ha conosciuto Giacometti personalmente, in un testo che non è mai stato pubblicato, dice: “Queste ombre, queste figure così sottili che sembrano guerrieri nuragici senza lance e senza spade”. Lui stesso aveva accostato l’opera di Giacometti a quella nuragica».

Pietro Bellasi, antropologo e sociologo: «Questa è un’avventura rara. Questa non è una mostra qualsiasi dove, come in qualsiasi altro museo, le cose si espongono come se si esponesse qualsiasi mercanzia. Questa è una mostra di ricerca. Su un personaggio straordinario che richiede sempre una ricerca. La mostra ha tre punti nevralgici, e sono tre problemi. Giacometti come tutti i grandi artisti ci pone dei problemi e mai delle soluzioni. Il primo problema è la rappresentazione del mondo. Il secondo è quello della durata. Il terzo problema è quello della simultaneità. Giacometti andava alla ricerca della rappresentazione ancestrale delle cose del mondo. Lui si estasiava davanti all’arcaico ma anche ai grandi del passato come Giotto, Rembrandt.
Pietro Bellasi, Museo Man Nuoro Si soffermava sulla realtà e su quell’impossibilità di raccontare la realtà. Quindi la rappresentazione è il primo dei grandi temi. Arriva poi il secondo dei problemi: la durata. Tutto ciò che sta nel mondo è sottoposto a due ipoteche. L’ipoteca del tempo e l’ipoteca dello spazio. In questo senso di Giacometti si può dire che è un uomo di montagna, che ha assorbito nella sua infanzia il problema delle montagne. Le montagne non si elevano al cielo secondo Giacometti. Le montagne calano verso il mare. Le montagne crollano. È la corrosione dello spazio e del tempo. Gli antropologi dicono che l’arte è nata perché, davanti al tempo – nemico – lo spazio è l’amico. Quindi in qualche modo l’uomo ha affidato allo spazio ciò che il tempo corrodeva e distruggeva. Credo che in questo allestimento del MAN si sia raggiunto proprio quello che Giacometti cercava: la simultaneità dello spazio e del tempo».

La ricerca dell’eternità. L’Arte che sopravvive al tempo. E su questo tema ritorna volentieri Chiara Gatti: «Lui voleva che le sue opere diventassero eterne come le opere egizie. Lui diceva sempre: “vorrei prendere una mia scultura e seppellirla e che qualcuno in un mondo lontano, tra chi sa quanti anni, disseppellendola e non sapendo che sono stato io, possa sopravvivere ai millenni”. Era consapevole che la vita è fragile, la vita passa, per cui le sue sculture hanno assorbito questa caducità.
Lui è figlio dell’esistenzialismo. Lui si sentiva un fallito alla fine».

Prima di andare via Chiara si ferma per una foto ricordo davanti a una piccolissima opera di Giacometti.
Le chiediamo il motivo per il quale abbia scelto proprio quella, e non una di quelle più appariscenti e in qualche modo monumentali del maestro svizzero: «Perché questa è la testina di Ottilia ed è una delle opere alle quali sono e siamo più affezionati. Perché Giacometti a un certo punto scava così tanto la materia, per cercare l’anima delle cose, che le sculture gli si sbriciolano tra le mani. Per cui diventano sempre più piccole.
Questa in fin dei conti è il nocciolo di tutto. La nostra anima, il nostro cuore».

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