BUON VIAGGIO MAESTRO

pinuccio sciola

PINUCCIO SCIOLA

«Un'opera deve emozionare, ma non ci deve essere nessuno che te la spiega. Non sopporto questa cosa: qualcuno che dopo la visione di un'opera tenta di spiegartela. Le emozioni non si possono spiegare»

ERA LA SERA PRIMA

Ho lasciato passare qualche giorno. Travolto com’ero da tutte le cose vissute insieme a te in quell’ultimo – maledettissimo - mese. Ho lasciato che si spegnessero i riflettori. Quelli che non ti sono mai piaciuti. Quelli che “Dobbiamo uscire, costi quello che costi, domani in prima pagina”. Quelli dei prossenèti dai denti felini e della caccia al fenomeno mediatico. Quelli del “Lo conoscevo molto bene” salvo poi scoprire che l’ultima volta che ti avevano incontrato era stato 10 anni prima alla sagra delle pesche di San Sperate.

pinuccio sciola Quanta gente Pinuccio. Hai visto? Quanti discorsi pieni di sofismi, trasudanti di retorica e promesse mai mantenute. Una bambina, le mani di una bambina, ti hanno riconsegnato quell’archetto di violino. Te lo hanno restituito in mezzo alle arance. Quelle arance che avevi riservato in quel tavolo lungo di granito per i croceristi che arrivavano da ogni dove per sentire il suono della tua opera. Quelle che innaffiavi con quella pompa chilometrica che ti portavi a spasso per il Giardino Megalitico.

«Come stai?» mi chiedevi. E lo facevi sempre col tono di chi si preoccupa davvero delle cose. Anche al telefono. Lo hai sempre fatto anche quando stavi male e a nessuno lo davi a vedere. Perché avevi 200 progetti da realizzare. Quelli che abbiamo trovato nascosti in una cartella del tuo computer portatile. Quante cose avevi in testa Maestro? Di quanta bellezza era gonfio il tuo cuore? La tua fragilità era la tua forza e la tua forza era arte. Perché si può essere tutto, ma non Pinuccio Sciola. «Ne nasce uno ogni 300 anni», mi disse Philippe Daverio, fuori dal Teatro Lirico di Cagliari, al termine della presentazione della Turandot. La tua Turandot.

C’è una forma di insegnamento involontaria che si chiama esempio. Quante cose mi hai fatto capire? Mi hai insegnato a non avere paura delle proprie idee. Anche quando sono rivoluzionarie. Anche quando il mondo ti rema contro. Cultore inconsapevole del pensiero laterale. Mi è sempre piaciuto il tuo modo di essere iconoclasta, rematore controcorrente che prende schiaffi dal vento.

Mi hai insegnato che la vera felicità nasce dall’incontro con l’altro. Con il diverso. Con lo straniero arrivato da lontano. Mi hai insegnato che si può viaggiare in due modi. Uno è quello che sanno fare tutti: compri un biglietto sali su un aereo e parti. L’altro è aprendo la casa – il cuore - alla gente e, nei loro racconti, nel loro travaso di vite e di esperienze, riempirsi di questa grande ricchezza che sono le vite degli altri. Siamo tutti schifosamente impauriti dallo sconosciuto. La casa non è più il luogo delle possibilità e dell’accoglienza, ma il mausoleo che racchiude il cadavere delle nostre misere esistenze. Guai a sporcarla a metterla a soqquadro. Sempre così troppo attenti all’ordine. Al “guarda la mia cazzo di casa quanto è bella”.

«Buonasera, è questa la casa del Maestro?»: così ti giravi per guardare chi c’era in quella porta. Non lasciavi mai che qualcuno ne rimanesse fuori. Che fossero i più grandi esponenti del mondo della cultura o dell’arte, o il turista arrivato dalle fiandre, per te erano tutti amici. Persone da abbracciare. Un piatto di quelle brodaglie delle quali solo tu conoscevi i segreti – ah quanto erano buone Pinuccio! - o uno di pasta con quel sugo “d’artista”, come ci piaceva chiamarlo, erano il pretesto, il detonatore, per innescare una nuova conoscenza, un nuovo cortocircuito tra esseri umani, anime e sensibilità. Non ti piaceva parlare di ospitalità perché dicevi: «Chi ne parla è il primo che non ama praticarla».

Così quella sera sei andato dal tuo macellaio. E come spesso facevi hai scelto i pezzi più buoni. Quelli più teneri. Li hai cucinati dicendo: «I medici mi hanno detto che devo mangiare cose piene di sangue». A tavola hai portato due di quelle bellissime arance rosse - quelle che di San Sperate tutta la Sardegna conosce – e spremendole, con quelle mani piene di forza e saperi, hai aggiunto: «Più sangue di così!». E noi a ridere come abbiamo sempre fatto.

Pinuccio Sciola Era la sera prima. E avevi uno sguardo stanco: «Vado a letto» mi hai detto «Domani ho tanta roba da fare». Il giorno dopo sei uscito, per l’ultima volta, da quel portone. Sapevi già dove stavi andando.

Quei volti di pietra si sono girati verso di te in segno di saluto. In segno di gratitudine. In segno di rispetto: Buon viaggio Maestro. Buon viaggio.

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