L'ISOLA DELLE STORIE XI

isola delle storie

FESTIVAL DELLA LETTERATURA

Perché si va a Gavoi? Perché si va all’Isola delle Storie? Per ritrovare se stessi? Per dare acqua alla sete di domande? Perché questo è il mondo che vorremmo? O per vivere la vertigine del pensiero? Viaggio tra le strade, i volti e le mille storie di uno straordinario festival letterario.

L’Isola delle Donne. Era questo il titolo felliniano che avevo in mente quando, ancora immerso nei fumi inebrianti di questa sostanza psicotropa chiamata “Isola delle Storie”, vagabondavo beato e con la testa tra le nuvole da un reading a un altro, tra le strette stradine di Gavoi. Dai tre “incontri dal balcone”- tutti rigorosamente al femminile - alle scrittrici che hanno animato di incanto, eleganza e fiabesca leggerezza questa edizione numero undici. Alle migliaia di donne arrivate qui da ogni angolo del mondo. Che la scrittura sia donna?

DAL BALCONE FIORITO

Savina Dolores Massa - Caterina Bonvicini Piazza Sant’Anna ‘è susu. È un venerdì mattina, luminoso e ben temperato dal sole. Il primo degli omaggi letterari è dedicato a William Shakespeare letto da un formidabile Mariano Cirina. Naturalmente al balcone. Il Balcone più famoso del paese sul lago. Cirina ci accompagna al primo degli incontri – tutti rosa – da quel aggètto di pietra e gerani. Savina Dolores Massa al suo primo affaccio sottolinea: «Voglio dedicare questa mattina al mio romanzo Undici. E questa undicesima edizione del Festival di Gavoi la voglio dedicare ai migranti e ai morti in mare». Un esordio che fa scoppiare subito l’applauso del pubblico della piazza. La prima delle tre scrittrici sarde che subito avverte: «Dagli scrittori sardi – quelli che vivono in Sardegna, non quelli che sono andati via - si pretende quasi una specie di folclore: come l’orbace o l’asfodelo. Tutte queste cose possono entrarci perché fanno parte del nostro paesaggio. Ma la capacità dello scrittore è andare oltre. Scavalcare il mare. Fare in modo che questo linguaggio, da locale si faccia universale». Caterina Bonvicini, siede al fianco della scrittrice oristanese, qui per presentare l’ultimo romanzo della Massa: Cenere calda a mezzanotte. «Un romanzo ricco di figure femminili». Il libro, ambientato a cavallo tra ‘800 e ‘900, prende il nome dal funerale di un maiale. La storia ruota intorno al capezzale e alla veglia funebre di Bonaria. Una donna che ha preso il tetano dopo aver calpestato un pezzo di vetro. Intorno al letto di morte il marito e i suoi figli iniziano a raccontare tante storie. «La trama di questo libro è proprio l’arte del saper raccontare», spiega Savina Dolores. «Per me che la ricchezza la trovo in altri luoghi più che nel denaro, salvare la memoria di gente che sarebbe passata altrimenti invano su questa terra è stata quasi una necessità. Gente umile. Gente qualsiasi. Quelle persone che non avranno mai una targa in strada dedicata a loro». E in un periodo di social-ciarlieri, il bisogno di ritornare a guardarsi in faccia e sentire il vero odore dell’altro: «Allora non c’era internet, si era perlopiù analfabeti. Così ci si ritrovava fuori dall’uscio di casa a condividere le cose, a raccontarle facendole passare di bocca in bocca. In un raccontare perpetuo che allacciava un argomento ad un altro. Il bisogno di condividere una sofferenza, una povertà o una gioia. Forse era proprio questo a tenere unite le persone».

Piazza Sant’Antiocru, appuntamento con Mezzogiorno di fuoco. Il titolo dell’incontro, condotto da un bravissimo Stefano Tura, è “La storia senza fili”. Faccia a faccia tra il più grande fotoreporter vivente Mario Dondero e il giornalista e scrittore Riccardo Chiaberge. Wireless è il titolo del libro che, Chiaberge, dedica al genio di Guglielmo Marconi. «Marconi era una specie di Steve Jobs ante litteram», racconta lo scrittore piemontese. «Un ragazzo che a 21 anni va a Londra e crea la sua start-up. È anche per questo che in copertina ho scelto di mettere la faccia di un Marconi giovane piuttosto che quella di un Marconi vecchio. Se non ci fosse stato lui, oggi con tutta probabilità, non andremmo in giro con i nostri amati telefonini. Ecco perché parlare di lui solo come “inventore delle radio” è in qualche modo sminuente. Lui è stato qualcosa di più. Lui è stato l’anticipatore dell’era digitale».
Stefano Tura, Mario Dondero Mario Dondero, maestro del fotogiornalismo, è un'enciclopedia di aneddoti. Dal suo primo reportage nel 1951 per l’alluvione del Polesine all’incontro con Fellini. Da Pasolini a Robert Capa a Fidel Castro, lui li ha conosciuti tutti. «Il posto più seducente del mondo è Cuba», racconta Dondero. «Fidel Castro è un’anima buona che ha cercato di cambiare il mondo alla sua maniera, che era una maniera militare. Ricordo perfettamente di quel giorno a Cuba. Mentre Fidel parlava, improvvisamente si spegne la luce. Noi veniamo tutti cinturati dalla polizia e portati di peso fuori. Poi sono tornato dentro, e in un momento di calma, essendo l’unico italiano che parlava la sua lingua, Fidel Castro mi ha interrogato per almeno venti minuti sulle mucche italiane. Per fortuna che un mese prima avevo fatto un reportage sulla razza chianina, in Val di Chiana, per cui mi sono dimostrato abbastanza competente ai suoi occhi. E lui ha iniziato a guardarmi con ammirazione». Stefano Tura chiede a Dondero: «Oggi chiunque è in grado di scattare una foto. Lo fa con lo smartphone, con i tablet. Poi queste immagini, nel giro di pochi secondi, possono fare il giro del mondo. Per un fotografo come te che gira ancora con questa splendida macchina a rullino come vive questa cosa?». «Credo il progresso vero è prima di tutto nella testa del fotografo. Nello sguardo dell’uomo. Il fatto che tutti fotografano la considero una conquista democratica. Il digitale è importante per quella fetta di giornalisti che hanno la necessità di raggiungere rapidamente la redazione dei giornali. Per me che non ho questa urgenza, l’uso dell’analogico mi da modo di riflettere. Di fare le cose con più attenzione. Credo davvero che per un fotografo la qualità principale è voler bene al mondo. Mettere al centro di tutto l’uomo. Al di là di tutto. Al di là del profitto».
Marco Vichi Il tempo di fermarci per andare a pranzo e mettere insieme il materiale fotografico e gli appunti raccolti. Sono le quattro del pomeriggio. L’appuntamento è nel giardino comunale di Binzadònnia. È un incontro importante ci dice Marcello Fois, con lo scrittore Marco Vichi. Qui a Gavoi presenta in anteprima il suo I fantasmi del passato e un bellissimo libro di poesie, scritte da sua madre, Respiri e Sorrisi. «Paola Cannas, mia mamma, è scomparsa nel marzo del 2013. È una donna che ha sempre vissuto per tutta la vita a Firenze e nonostante le sue origini sarde non ha mai messo piede in Sardegna», ci dice lo scrittore fiorentino. Da Sardegna a Notte di Gelo da Autunno in Toscana a Gli amici. «Questo libro oltre ad essere un bel libro di poesie porterà dei soldi all’associazione “Il filo di Juta” in Bangladesh dove, dal 1° gennaio 2014, la scuola di Khona è stata intitolata a lei. A mia mamma. È un libro che mi è particolarmente caro anche per il fatto che attraverso le poesie, attraverso i suoi racconti, ho scoperto momenti della vita di mia madre che altrimenti non avrei mai potuto conoscere». E parlando del suo libro, I fantasmi del passato, Marco prosegue rimanendo sempre all’interno del lirismo delle sue memorie domestiche: «Al di là della trama principale, chi mi conosce sa che nelle mie storie c’è sempre un commissario – il commissario Bordelli - che invita delle persone a cena. Sul finire della cena, quando le persone hanno bevuto un bel po’, lui le invita a raccontare una storia. Una di queste storie è la storia di mio nonno, che era di origini sarde: di Gonnosfanadiga. Come tutte le altre storie presenti in questo libro sono storie vere. Per tanto tempo ho farcito le storie del commissario Bordelli coi racconti di guerra che mio padre ci raccontava a tavola. E anche dopo di lui, una volta esaurite le sue, un suo compagno di guerra ha continuato ad arricchirmi con altre storie ancora. La cosa bella è che i miei lettori hanno poi iniziato a mandarmi le loro. A raccontarmi le storie che loro hanno sentito raccontare in famiglia». Racconti che diventano templi per la memoria. Fantasmi che ritornano a farci visita.
Cezar Paul-Badescu In piazza Mesubidda è tardo pomeriggio quando, Vincenzo Latronico che, come preannunciato da Marcello Fois al microfono, in questa edizione prenderà il posto di Chiara Valerio, incontra lo scrittore giornalista rumeno, Cezar Paul-Badescu. Con loro anche la traduttrice del libro in lingua italiana, Irina Turcanu. Il romanzo di Badescu, Le giovinezze di Daniel Abagiu, racconta la storia di Daniel Abagiu - cresciuto sotto il regime di Ceausescu - dalla prima stagione della sua vita, l’infanzia, passando poi per l’adolescenza e infine in quella in cui diventa un uomo. «In questo libro ho tentato di ricomporre una tabella degli elementi. Una sorta di tabella di Mendeleev. Ma qui non abbiamo elementi chimici, ma frammenti di vita. Come in puzzle coi pezzi mescolati, io ho cercato di ricomporlo. Ogni pezzo rappresenta una scena emblematica dell’infanzia. A questo enorme puzzle mancano degli elementi. E quei posti rimasti vuoti sono un invito per il lettore a riempire questi vuoti con la memoria dei propri ricordi. E questa cosa funziona. La cosa interessante è che, nonostante il personaggio sia un ragazzo, molte delle mie lettrici si sono identificate in lui».

In questo incontro si è parlato della difficoltà che molto spesso incontra il traduttore a far passare giochi di parole e ancora di più la cultura di una nazione attraverso la traduzione di un racconto. Parole, concetti e Storia. La Storia di un popolo.

«Alla fine io credo che non esista la Storia con la “S” maiuscola», sottolinea Badescu, «Quella Storia la si studia a scuola e spesso viene manipolata. La vera Storia è la storia personale. La storia di ognuno di noi. E soltanto mettendo insieme le storie individuali si può comporre la grande Storia».
Katja Lange-Müller, Soledad Ugolinelli Un muraglione altissimo di pietra granitica separa Piazza Mesubìdda dalla piazza della chiesa: Sant’Antiocru. E qui, per “Storie di altri luoghi” alle 19.30 Viktoria von Schirach incontra Katja Lange-Müller. «In Germania Katja è famosissima e amatissima» , ci racconta Viktoria, «Potrei riempire l’intera ora di questo incontro semplicemente elencandovi tutti i premi che lei ha ricevuto. E sono tutti premi importanti». Una donna che prima di diventare scrittrice è stata tipografa e anche infermiera, sino a trasferirsi per un anno in Mongolia dove lavorerà in una fabbrica di tappeti. «Il suo libro più premiato è stato Pecore Cattive, che in Italia uscì sette anni fa col titolo L’agnello cattivo», prosegue Viktoria, «Allora inizierei proprio a domandarle del come mai questo titolo – forse anche un po’ sardo – Pecore Cattive?»
«Il motivo è molto semplice. Una mattina, mentre scrivevo di questo libro mi sono ritrovata in un mercato di frutta e verdura. Mi sono accorta che tra la gente un tossicodipendente cercava di comprare qualcosa. Ma questo non gli era permesso in quanto non aveva i soldi necessari per farlo. Ad un certo punto il ragazzo si è arreso e allontanandosi dal mercato bofonchia una frase: “anche una pecora si incazzerebbe davanti a questi”. Da quel momento mi sono posta una domanda: che cosa deve fare davvero una persona per fare incazzare una pecora? Da questa domanda è nato il titolo del libro». Il libro è una meravigliosa storia d’amore ma, con un agnello cattivo. Un incontro in cui lei, la protagonista Soja, si innamora di un tossicodipendente: Harry. Inizia nel 1987 quando il muro di Berlino è ancora lì a ricordarci le vergogne di un passato nemico dell’uomo. Nemico dell’amore e della dignità. «Il libro nasce anche da una necessità» sottolinea la scrittrice tedesca. «Dopo la riunificazione delle due germanie, la cosa che mi colpì fu il fatto che gli abitanti, di Berlino ovest, non si lamentassero del crollo del muro. Cosa che invece infastidì evidentemente gli abitanti di Berlino est. Con i due personaggi di questo libro ho voluto ricreare questi due volti di Berlino. I due opposti di questa città».
Walter Siti Si è fatta l’ora di cena. E prima di ritornare nella piazza della chiesa per l’ultimo incontro della giornata approfittiamo per un giro all’imbrunire tra le vie del centro storico. Sono passate da poco le 22.30 a Sant’Antiocru. Incontro molto atteso, che nella nostra agenda come per molti altri di questa edizione numero 11, è cerchiato in rosso. Per “Povera Patria”, Chiara Valerio incontra il Premio Strega 2013, Walter Siti, qui a Gavoi col suo nuovo libro: Exit Strategy. «Che cosa ha chiesto e continua a chiedere alla letteratura, e cosa la letteratura ha chiesto e continua a chiedere a te?», domanda Chiara Valerio. «Buonasera a tutti, siete in tantissimi e questa cosa fa un po’ impressione», dal palco Siti cerca di arrivare con lo sguardo sino alla fine della piazza. «Ci riflettevo mentre arrivavo qui. In questo luogo carico di letteratura. Devo dire che non mi sono mai trovato completamente a mio agio con la letteratura. Nel senso che non la amo veramente. Leggo abbastanza poco per esempio. Devo dire che sono legato molto ai classici del passato. Ho l’impressione che essendo nato in una famiglia dove i libri non c’erano, mi ha creato una strana forma di rapporto con la letteratura. È come se leggessi solo le cose di cui sento il bisogno. Sono rimasto abbastanza selvatico da questo punto di vista. Quindi se mi chiedi cosa io chiedo alla letteratura io credo che continuo a chiedergli la cosa che gli chiedevo quando ero ragazzo: gli chiedo di farmi capire come funziona la vita. Di aiutarmi ad attraversare le cose che non capisco. Alla seconda domanda: cosa la letteratura chiede a me? Quando gli scrittori stanno tra di loro, danno per scontato di essere tutti coetanei. Come se l’età non passasse. Invece l’età non è un'opinione. Adesso che sono vecchio, credo che la letteratura mi chieda, fondamentalmente, di non distrarmi. Cioè, visto che la mia vita è andata così, mi chiede di non riempirmi di altre cose. E di concentrarmi solo su questo».

«È strano intervistare Walter Siti», chiosa la Valerio. «Perché uno si fa un'immagine di uno scrittore che è pieno di libri, che è pieno di musica… Dovendo partire dalla tua biblioteca, dai libri che hai letto, quanto questi libri potrebbero raccontare di te?».
«Penso che non racconterebbe molto. Perché è casuale, desultòria. Io per esempio dopo aver letto un libro lo butto o lo regalo, lo perdo. Di avere un libro in casa non me ne frega niente. La copertina del mio nuovo libro, Exit Strategy – che è un ragazzo che esce da quadro, dalla cornice - è stata una copertina per la quale ho un po’ combattuto. Rizzoli non la voleva. Ho sempre pensato che la letteratura sia proprio questa. Una specie di gabbia ordinata. Che però viene rotta continuamente dalla vita che non ci sta tutta dentro. E quando viene fuori occorre una nuova cornice per far stare dentro quello che nel frattempo è uscito fuori. Questa cosa l’ho notata in particolare studiando Pasolini per vent’anni. A partire da una certa data ha cominciato a vedere che le forme della letteratura che inventava si rompevano tutte. In questo senso penso che più che i libri che ho letto, a raccontare di me sia la terra dove sono nato. La mia famiglia. Un certo modo di amare. Tutto questo ce lo portiamo dietro di libro in libro. E anche se cambi casa o continente, questa cosa qui ti segue. Mentre tutto il resto, dallo studio della metrica ai vent’anni passati a studiare Pasolini li ho sempre visti e vissuti come strumenti di lavoro». La conversazione prende presto direzioni inaspettate: da Dracula al consumismo e di società dei consumi, di anima e di corpi addizionati dalla chimica. E di social network. Con Siti puoi parlare di tutto. Un grande critico letterario sempre sobrio ed elegante. Ma cosa verrà dopo, cosa c’è nel futuro dello scrittore Walter Siti? «Dopo questo libro, quello che vedo davanti a me sono due o tre anni di silenzio e di lavoro. Vorrei un libro senza le metafore con cui ho sempre lavorato. E molto meno carico di abbellimenti. Con uno stile più nudo, più secco. Su un tema che ha comunque a che fare col desiderio, ma che impegna il protagonista in un corpo a corpo con l’assoluto. Credo che il protagonista sarà un prete. Un prete vero, di quelli che credono veramente in Dio».

IL SABATO NEL VILLAGGIO

Paola Soriga e Caterina Bonvicini Mattinata al balcone dove Caterina Bonvicini incontra la scrittrice Paola Soriga. Dal suo romanzo di esordio Dove finisce Roma alla scrittura e letture di formazione come del grande Gadda: «La mia scrittura non c’entra niente con la sua, ma spero che la sua influenza sia presente in qualche forma in ciò che scrivo». Una delle cose che incuriosisce sempre, non solo i lettori, è conoscere il processo che porta poi alla nascita di un libro. «A volte non lo sai neanche tu. Il processo di scrittura è qualcosa di magico, difficile da spiegare e da raccontare. Subito dopo la laurea in letteratura all’Università di Pavia ho lavorato per alcuni anni per una casa editrice a Roma. È stata molto importante perché mi ha permesso di capire meglio come funziona il mondo dell’editoria. Ho imparato che a me non piace scrivere recensioni per i libri degli altri. Però mi piace raccontare delle piccole storie sui quotidiani, un po’ quello che ho fatto su Repubblica. Ho imparato che quando scrivi un libro, se vuoi un parere non devi farlo leggere ad altri scrittori. Lo devi far leggere a dei lettori. Gli scrittori mi dicevano di togliere delle parti e alla fine ho notato che quelle parti erano proprio quelle che colpivano di più il lettore o addirittura, come nel caso della parte della grotta, erano la parte principale del romanzo. Prima di scrivere questo libro - il mio romanzo di esordio - ho scritto poesie per anni. Il libro è nato proprio così. Scrivevo una poesia che poi ha iniziato a diventare lunghissima e in quel momento ho capito che c’era bisogno di darle un’altra forma». Sul finire dell’incontro Paola ci apre una finestra sul suo nuovo lavoro: «Il mio prossimo romanzo uscirà in autunno per Einaudi. È un romanzo che da una parte è molto diverso dall’altro, ma che in realtà ha un filo conduttore che li unisce. In Dove Finisce Roma ho messo delle cose di oggi in un contesto di quel tipo, di guerra, mentre nel romanzo che sto per terminare metto delle cose di oggi senza nessun filtro. Provo a raccontare la vita di alcune persone più o meno della mia età. Si parlerà anche di amore».

Mezzogiorno di Fuoco, Stefano Tura presenta Chiara Valerio con L’Almanacco del giorno prima, e Vincenzo Latronico, con due libri La mentalità dell’alveare e La cospirazione delle colombe. Precedenza alla Valerio. Tura le chiede subito: «Qual’è il percorso che ti ha portato da un dottorato in matematica alla scrittura?»
Chiara Valerio, Stefano Tura e Vincenzo Latronico Chiara è divertentissima, non solo per il suo tono di voce da ragazzina scapigliata: «Siccome nella vita bisogna essere fortunati e io lo sono stata il mio percorso è un percorso di fallimento. Perché molto prima di finire il liceo mi fisso che devo fare la Normale di Pisa nella classe di Lettere. Mi prendo un sacco di libri. Ricordo che nell’estate del 1992 mio padre mi ha comprato 250 mila lire di opere fondamentali di filosofia. La protervia e la vana gloria sono state tali che quando non sono stata ammessa alla classe di Lettere ho detto: adesso mi metto a studiare matematica. A parte un tocco di genialità in seconda media quando ho inventato un metodo per fare le radici quadrate, poi più niente. Il motivo per cui nonostante non fossi particolarmente portata per la matematica, scelsi comunque la matematica è stato perché mi piaceva moltissimo la mia professoressa di matematica del liceo. Però prendevo un ostentato 6. All’ultimo anno quando Maria Rosa ci chiede “cosa farete all’università?”, io pur che lei mi guardi una volta con grande interesse le dico: matematica!». Prosegue sottolineando: «Matematica è l’unica facoltà che ci sia in Italia che è una facoltà di grammatica. La grammatica ti insegna una cosa: la possibilità di comporre le parole e la fallacia del linguaggio.

La possibilità delle parole di trasportare una forma senza trasportare un senso. La matematica è sostanzialmente un avviso a non avvicinarsi. A non tentare di contribuire. Quindi in questo percorso di fallimento io incontro una cosa in cui è facile fallire. Perché tutti falliscono. E questo mi restituisce una grande normalità. E quindi dalla bambina di Scauri che raccontava le frottole, mi trovo una tardo adolescente diciottenne con davanti una cosa che è inaffrontabile. E mentre è inaffrontabile ti restituisce una misura di te e una realtà. E quindi una volta che hai misura di te e una realtà, anche se falsata dalla matematica, tu la puoi cominciare a raccontare questa cosa. E quindi io ho cominciato a raccontarla».

«Una laurea in filosofia in Italia a cosa serve?» Chiede Stefano Tura a Vincenzo Latronico: «Io avrei voluto studiare qualcos’altro. Ma da ragazzino volevo assolutamente scrivere. Mi ricordo che fermai Umberto Eco, all’uscita di una presentazione, e gli chiesi: io voglio fare lo scrittore cosa devo studiare all’università? Lui mi guardò un po’ perplesso e mi disse: io ti consiglio una facoltà umanistica. Perché è l’unica che ti lascerà abbastanza tempo libero per leggere tutte le cose che devi leggere».
Per la scrittrice di Scauri, «un libro per essere interessante deve avere tre cose: una storia, un’invenzione della lingua e un'invenzione del tempo. Bisogna smettere di trattare come libri tutto quello che ha la forma di un parallelepipedo del libro. Un libro che non ti trasporta da qualche altra parte non è un libro, è un non-libro».
«Entrambi scrivete di vita reale, di situazioni contemporanee. Perché questa scelta?»
«Per me si tratta solo di una coincidenza», risponde Latronico. «Per me il senso della letteratura è quello di una forma di ragionamento ipotetico. Trovo che in questo la fantascienza sia uno strumento incredibile. E in qualche modo i miei ultimi due romanzi sono una specie di micro-fantascienza nel senso che sono ambientati uno, due, tre anni nel futuro. Io cullo il sogno di scrivere un romanzo di fantascienza. Magari prima o poi lo affronterò. I personaggi dei miei due romanzi non esistono. Per cui quando racconti di personaggi che non esistono che siano draghi, o speculatori o astronavi o spade laser, secondo me il principio è lo stesso».
Chiara Valerio: «A me piace moltissimo la fantascienza. Ho scritto moltissimi racconti di fantascienza che non ho mai pubblicato. E sono racconti che sono nati dal fatto che dopo il dottorato ho lavorato con le macchine fisiche del museo di fisica di Napoli. Non è esattamente steampunk ma una fantascienza ferma in un punto in cui le macchine hanno una complessità comprensibile agli esseri umani. Quindi che possono creare metafora. E poi penso che non esista una catalogazione netta tra romanzi storici o romanzi gialli o romanzi neri. Penso che siano classificazioni che facilitano la catalogazione in libreria delle cose».
Matteo Bianchi Nel primo pomeriggio nel giardino comunale di Binzadònnia il nostro arrivo è accompagnato da un duo di giovani musicisti: Diego Desole e Jacopo Pischedda, gli Akok’Ensemble del conservatorio Canepa di Sassari. Intorno alle quattro, uno degli incontri più esilaranti e ridaciani dell’intera kermesse. Arriva Matteo Bianchi – scrittore, editor, uno che da oltre vent’anni si occupa di editoria in particolare quella legata agli esordienti - titolo della sua divertentissima filippica: Esordienti: errori da non fare. Che tradotta in sintesi suona come: tutte le cazzate da evitare quando ci si presenta a un editore per tentare di far pubblicare il proprio libro. «Mi è venuto spontaneo preparare questa lezione sull’onda della disperazione. Ci sono cose che arrivano alla mia mail, e che tra un po’ vi leggerò, davvero agghiaccianti.» Matteo ci illustra alcune delle regole basiche che: «possono sembrare banali all’apparenza ma che invece non lo sono affatto». Ci spiega: «Quando mandate qualcosa da leggere a un autore non mandateglielo anonimo. Io ricevo almeno un 30% di racconti senza il nome sopra. Secondo: imparare a inviarle della dimensione giusta e soprattutto imparare a capire a chi ci si rivolge. Questo perché in realtà persone diverse hanno competenze diverse. Se hai scritto un libro di fantascienza è più corretto scrivere a un autore o a un editore di fantascienza e non a uno come me che di fantascienza non ne capisce niente. Lavorando in questo campo mi sono accorto che per certa gente non esistono distinzioni. Altra regola: quando inviate qualcosa state cercando giudizi e non complimenti. Mi è capitato di dare dei giudizi, su materiale che mi è stato inviato, e ricevere delle risposte del tipo: “ma chi cazzo sei tu per dirmi questo?”
È stupido da ribadire ma se i complimenti fanno piacere sono le critiche che fanno crescere. Un’altra cosa ancora: siate selettivi! Mi capita di ricevere tre romanzi, una raccolta di poesie, una di racconti. Intanto lo trovo insultante, come se qualcuno pensasse che non ho altro da fare nella vita. Come se avessi tutto il tempo che voglio per leggere questa roba. Ma poi il problema è anche un altro: se voi mi mandate venticinque racconti io non penso che voi siate creativi anzi, penso che non siate capaci voi ad inviarmi qual è il racconto rappresentativo da farmi leggere. Una o due cose giuste sono meglio di venticinque messe lì a caso. Inoltre c’è un'ultima cosa: quando mandate a leggere le vostre cose a qualcuno, sappiate che non siete i soli. Lo dico perché a volte ricevo delle mail il lunedì e il mercoledì ne ricevo un’altra di sollecito: “perché non mi hai ancora risposto?”»
L'Isola delle Storie e il suo pubblico Matteo Bianchi prosegue con la lettura di numerose lettere che riceve quotidianamente dove continua a mettere l’accento sugli errori da non fare. Alla fine delle tante chiassose risate, alcune sino alle lacrime, Matteo si fa serio e ci dice: «Tutto questo fa ridere, ma se metto in evidenza tutte queste cose è perché io ci credo davvero a tutto questo. Io credo nella forza degli esordienti. Ma voglio che ci mettano impegno e ci credano davvero in quello che fanno. E da questa parte troveranno sempre una mano tesa in loro aiuto».

Attraversando la lunga via principale del paese, nel percorso che ci porta dal giardino comunale a Piazza Mesubidda, ci soffermiamo davanti alla grande foto di Giorgio Faletti appesa su un muro. Un attimo di silenzio. Il giorno prima Marcello Fois ci annunciava la sua prematura scomparsa e ora siamo qui davanti a lui, che ci guarda. Lui che sette anni prima era stato ospite qui a Gavoi, ora ci osserva da quella parete…
Fabio Stassi Piazza Mesubidda, per “Altre Prospettive”, Vincenzo Latronico incontra Fabio Stassi, con il suo Come un respiro interrotto. «È un romanzo polifonico, corale», sottolinea subito Stassi. «È un romanzo sulla voce. Sul fatto che non si smette mai di cercare la propria voce. È un romanzo con la voce e con le voci. Mi piacerebbe dire è un romanzo fatto con il fiato. Io arrivo da un’altra isola: la Sicilia. Da noi c’è un'espressione bellissima che si dice ai bambini, agli innamorati e in generale alle persone a cui si vuole veramente bene: sciatu meu, fiato mio. Io sono cresciuto in una famiglia molto povera, dove il fiato era tutto. Mia nonna mi diceva: col fiato puoi raccontare le storie. Fiato e voce. Con la voce racconti la tua vera identità. La mia famiglia era una famiglia piena di voci. In lingue diverse con accenti diversi. Mia nonna era nata a Buonos Aires, una bisnonna proveniva da Cartagine, un nonno era albanese, un’altra ancora era catalana. E poi ci sono gli amici e le amicizie che ho intercettato già negli anni settanta, quando ero adolescente. In questo romanzo c’è proprio questo. Questo mix di voci e di culture. Soledad che nel mio romanzo chiamano Sole, vive già nel proprio nome i due opposti significati: la solarità e luminosità del sole e la solitudine. E come intorno al sole, intorno a Soledad ruota una famiglia di personaggi particolari di voci particolari. Lei è una cantante. Lei canta la sparizione e la mancanza. Quindi in realtà lei è una scatola vuota e come tutti i cantanti veri lei usa la sua voce per cantare per tutti». Dallo zio Amerigo con la gamba di legno alla nonna che a Natale apparecchiava per i morti e per Charlie Chaplin, da Palermo a Roma, aneddoti divertenti che Fabio Stassi accompagna sempre col suo delicato accento siciliano che non lo ha mai abbandonato, anche ora che vive nel Lazio: «A me piace spesso ripetere che si cresce in una lingua e non si cresce in un luogo».

Si cresce in una lingua. E quando questa è la lingua degli Elfi?
Auður Ava Ólafsdóttir Arriva dall’Islanda e dall’enorme presenza di pubblico si percepisce sin da subito che c’è fermento e grande attesa per questa scrittrice islandese. Il suo arrivo, in piazza Sant’Antiocru, è preceduto da un preludio musicale dagli Akok’Ensemble. Suonano uno strumento molto simile allo xilofono, la marimba. E subito dopo, l’omaggio alla grande poetessa polacca Wislawa Szymborska, letta dall’attrice Giorgia Senesi. L’attesa è finita: sul palco arriva Auður Ava Ólafsdóttir. Capelli rosso rame, pelle bianco alabastro e occhi azzurri. Con lei Giorgio Vasta e la traduttrice Juana Sommermann Weber. Su quel palco non c’è solo la più grande scrittrice vivente islandese, ma c’è la storia di un popolo e di un’isola. Ci sono i misteri e i miti di un territorio così estremo e forse, anche per questo, così magico. E di un clima «capriccioso», come lei stesso lo definirà più tardi, «dove il tempo cambia dieci volte al giorno, in un paese dove ci sono più pecore che abitanti».
«Buonasera a tutti», esordisce così, in un italiano quasi perfetto, e una voce dai toni gentili. «Vi ringrazio molto di essere venuti così numerosi all’incontro di una scrittrice venuta da lontano, da un’altra isola delle storie, conosciuta per i suoi 200 vulcani attivi, che ogni tanto disturbano lo spazio aereo dell’Unione europea», il pubblico ride. «Mi scuso per questo», il pubblico applaude. «Sono così emozionata di essere qui che questa mattina mi sono svegliata senza voce. E uno scrittore senza voce, uno scrittore senza una propria voce non esiste. Non è nulla. La mia specialità, qui in questo festival letterario, è quella di scrivere in una lingua che nessuno capisce e che si chiama islandese: a parte i trecentoventimila abitanti, di questa isola nera e senza alberi, e dei pochissimi traduttori».
Giorgia Senesi In Italia tre suoi libri l’hanno fatta conoscere e amare: «La donna è un'isola, Rosa candida e quest’ultimo, L’eccezione, sono tre libri molto diversi. Rosa candida è la storia di un uomo giovane che ha la tipica sensibilità maschile. È la storia di un giovane uomo che si trova ad essere padre per caso e deve affrontare l’enorme complessità della paternità. Ma non solo, racconto la complessità per un uomo di essere padre, figlio e amante.
Ne La donna è un'isola, racconto invece la difficoltà di essere donne. La protagonista è una traduttrice. In questo libro c’è il corpo di una donna che è l’elemento intorno al quale ruota tutto il resto. È il racconto di un rapporto difficile tra questo corpo, un corpo femminile, e le parole. E nonostante lei come traduttrice conosca moltissime lingue ha comunque difficoltà a trovare le parole. Davanti a lei ho messo in contrapposizione un personaggio, uno che di parole ne conosce poche. Un ragazzino che parla pochissimo. A questo personaggio mi sento molto legata, come a tutti quei personaggi che in qualche modo sono considerati “diversi”, ai margini della storia.
L’eccezione affronta invece la complessità dei rapporti tra l’uomo e la donna. È un libro sull’arte di scrivere. Quasi tutti i personaggi sono scrittori e scrittrici tranne che la protagonista. Lei è “l’eccezione” in questo senso».
Auður Ava Ólafsdóttir con la traduttrice Juana Sommermann Weber Sul finire dell’incontro arriva quello che in molti aspettavano: «Vorrei farvi capire come è il suono di questa lingua che nessuno capisce, che è anche la lingua più antica parlata in Europa». Auður Ava Ólafsdóttir legge l’incipit de L’eccezione. E la nostra memoria non può che correre al suono e alla metrica della lingua degli Elfi nel capolavoro di Tolkien: Il Signore degli Anelli. Giorgio Vasta ha il tempo per un'ultima domanda: «Nonostante potessi agevolmente scrivere in inglese tu hai scelto di scrivere in islandese. Scrivere nella tua lingua cosa ti consente e invece cosa ti impedisce?».
«Io penso che tutte le lingue sono ugualmente importanti. E non importa che sia parlata da solamente trecentoventimila persone come in Islanda. Ogni lingua racchiude in sé una filosofia, con la sua Storia e le sue storie. Il mondo ha bisogno di storie raccontate in tutte le lingue. Mi sono sempre interessata alle lingue minoritarie. Non è un caso che il protagonista di Rosa candida sia un ragazzo che parla una lingua capita da pochissime persone. Che lascia il suo paese per andare in un altro posto per imparare un dialetto che parlano ancora meno persone. Ogni settimana nel mondo muore una lingua. Ecco perché credo che il mondo ogni settimana è molto più povero».
Marcello Fois intervista Sigitas Parulskis Si sono fatte le dieci e mezza di sera, arriviamo subito dopo la cena. Leggasi: panino con purpuzza e bicchiere di cannonau. Nella stessa piazza dove qualche ora prima incontravamo Auður Ava Ólafsdóttir, il pubblico applaude allo scrittore lituano Sigitas Parulskis. Fisico massiccio e sguardo di ghiaccio. Lo stesso Marcello Fois incontrandolo sul palco ci dice: «Bellissimo. Io ho parlato tutto il pomeriggio con lui. Tuttora non riesco a capire se è entusiasta di quello che dico o se stia per fare qualcos’altro». Ma dietro a quest’uomo di poche parole si nasconde uno scrittore e un poeta straordinario. «A soli 49 anni ha già pubblicato sedici libri» spiega Irina Dvizova. «Cinque romanzi, cinque raccolte di poesie, cinque libri di saggi, e un libro di testi teatrali. Ma lui è anche un traduttore, sceneggiatore e professore universitario». «Tre secondi di cielo, non è solo il titolo del tuo libro ma è anche il periodo in cui bisogna volare liberi prima di aprire il paracadute. È una metafora straordinaria. Un romanzo scritto in prima persona. Che parla diretto al lettore. Come mai questa scelta?», chiede Marcello Fois. Spiega Parulskis: «Il romanzo è il racconto di un giovane e della sua iniziazione. Il fatto che scrivo in prima persona può essere spiegato con il fatto che ho iniziato a scrivere come poeta e subito dopo come saggista. Probabilmente questo è stato il modo più naturale per affrontare questo romanzo».
«Tu pensi alla storia nel suo insieme o ti fai sorprendere dalla storia che stai scrivendo?», chiede Fois.
«Mi è difficile rispondere a questa domanda perché il romanzo è stato scritto tanto tempo fa». ll libro che in Italia uscì nel 2005 è, di tutta l’opera di Parulskis, l’unico tradotto in italiano. «Se dovessi proporre uno qualsiasi dei miei sedici libri, io consiglierei sicuramente l’ultimo, uscito in Lituania un anno e mezzo fa. Se volessimo dargli un titolo, così su due piedi, potrebbe essere “Il buio & Co.” anche se per tradurne il titolo dal lituano dovrei pensarci bene. Il tema trattato è uno di quei temi poco noti. Parla di un fotografo che partecipa nel 1941 a degli eventi poco noti dal punto di vista storico. Ossia l’annientamento della nazione ebraica in Lituania. Questo è un tema complesso, come lo è tutto il romanzo. In questo momento sto lavorando a un romanzo autobiografico. In un'intervista che ho dato questa mattina a una giornalista italiana, ho messo in evidenza l’importanza di raccontare un fatto qualsiasi della mia vita in un fatto letterario dandogli allo stesso tempo un valore culturale». L’incontro si conclude con un brano del libro e un appello da parte di Marcello Fois: «Invito a chi volesse farlo a non togliere questo autore ai lettori italiani, perché io trovo veramente che sia un'esperienza straordinaria». Applauso. «E ora: Mirto con l’Autore». Parlando con una signora nel giardino comunale di Binzadònnia mi sento dire «uno dei motivi per cui vengo a Gavoi tutti gli anni, all’Isola delle Storie, è anche per Mirto con l’Autore». Non ho dubbi a crederle, guardando il giardino comunale colmo sino agli angoli più bui di persone di ogni età. È come se, per una sera, solo per qualche ora, l’intero pubblico del festival si riversasse tutto in questo fazzoletto di terra di prato e di stelle. Il pubblico è curiosissimo: ha voglia di sentire e conoscere, dalla viva voce degli scrittori, aneddoti e curiosità delle loro vite. E gli autori si lasciano andare in divertentissime e avvampanti confessioni.

L'ULTIMO GIORNO

Flavio Manzoni, Stefano Tura e Antonio Marras Per un problema di (guarda caso) meccanica alla nostra macchina arriviamo a Gavoi in tarda mattinata. È già mezzogiorno. Mezzogiorno di Fuoco. Un incontro attesissimo. Il titolo di questo incontro ci aveva affascinato sin dal suo esordio nei pieghevoli del programma ufficiale. Tanto affascinante da poter essere il titolo di un libro: La meccanica del bello. Perché se il bello ha una meccanica che ne spiega i suoi misteriosissimi ingranaggi allora chi meglio di loro poteva salire sul palco di Sant’Antiocru per accompagnarci in un mondo fatto di donne e motori, di moda e design, di potenza e eleganza. Flavio Manzoni e Antonio Marras: il direttore del design in casa Ferrari insieme a uno dei più raffinati e amati stilisti italiani. Ma guai a chiamarlo stilista!
Antonio Marras «Credo che la parola “stilista” sia una parola un po’ obsoleta», sottolinea Marras. «Nell’immaginario collettivo è uno che pensa alla grandezza del tuo abito piuttosto che alla pesantezza di un tessuto. Credo invece che chi fa il mio lavoro abbia la necessità di confrontarsi con quello che succede intorno e quindi il luogo dove nasci, le persone, le cose che accadono sono comunque conseguenza diretta di quello che poi succede nell’abito che viene creato. Sono uno che nasce in bottega. Mio padre aveva un negozio di tessuti. Io sin da piccolo passavo i pomeriggi lì. A un certo punto faccio il mio primo viaggio a Milano; arrivo da Fiorucci e mi si apre un mondo. È stato come entrare nella caverna di Alibabà. Davanti a me c’era questo signore, un gigante barbuto… Questo è stato il mio primo battesimo in questo mondo. Davvero singolare per uno come me che avrebbe dovuto lavorare in banca col mio titolo di studio di ragioniere. Un giorno un signore mi chiede di disegnare una collezione, la prendo come una sfida e dopo due anni decido di accettare questa sfida e nasce così la mia prima collezione». Sul palco, ai suoi piedi, ha una borsa enorme, carica di fogli e di appunti.
«Professionalmente sono una serie di incontri che la vita mi ha riservato. In realtà la mia vita professionale e umana è cambiata quando io ho incontrato una donna sulla mia strada. Una sorta di Jana, di fata, di strega, che si chiama Maria Lai». Scoppia l’applauso del pubblico. «Intanto è una donna che mi ha preso per mano in un altro mondo, in un altro al di là nel quale io cercavo in qualche modo di affacciarmi, ma dal quale ero impaurito. Lei mi ha preso per mano e mi ha introdotto nel mondo dell’arte. Questo incontro mi ha fatto crescere a tal punto che un giorno mi disse: “ti ho lasciato bambino e ti ritrovo artista”».

«Uno pensa che due personaggi come Flavio e Antonio siano presi solo da grandi cose e non abbiamo più tempo di pensare alla loro passione che è il disegno» Stefano Tura ora si rivolge a Flavio Manzoni. «Tu hai sempre avuto una grande passione per il disegno. Ma non solamente automobili, ma anche fumetti, animali… Qualunque cosa. Tu sei nato disegnando…».
Flavio Manzoni «Si, è così. Antonio ha parlato del suo mentore: Maria Lai. Io ho avuto la fortuna di avere il mio mentore in casa: era mio padre. Un uomo dal grande talento per il disegno e un grande senso di umiltà. E usava il disegno come mezzo di comunicazione. Ho imparato a disegnare quando ho imparato a parlare. Il disegno quindi è qualcosa che mi permettere di rendere immediatamente visibili le idee che ho in testa». Arriva così il momento in cui questi disegni prendono forma di autovettura. «Ogni giorno, dopo la scuola, insieme a mio fratello Maurizio facevamo a gara a chi inventava su un foglio una nuova vettura: dalla carrozzeria al motore. Persino gli interni, e alla fine le davamo un nome». E dai disegni all’industria dell’auto. «È stato un puro caso. Mio zio che era molto amico di Giorgio Piola – il grande giornalista di Autosprint – un giorno passa a Nuoro e mi dice: “metti insieme un po’ di disegni delle tue macchine che li porto su a Bologna”. I disegni sono piaciuti così tanto - avevo fatto due supercar un po’ visionarie - che fecero un articolo dal titolo Due belve affascinanti. Questo non solo mi ha fatto capire quale sarebbe stato il mio futuro indirizzo di studi, Architettura prima e poi un corso di specializzazione in design industriale, ma mi ha anche permesso di lavorare, durante gli studi, come illustratore automobilistico».

Figure paterne che hanno accompagnato e contaminato la crescita umana di Flavio e Antonio. E proprio Marras racconta il ricordo di suo padre quando insieme lavoravano in bottega.
Flavio Manzoni coi bozzetti delle Ferrari «I miei pomeriggi erano scanditi in questa maniera. Un po’ di studio che bisognava fare poi la prima tappa era il cinema, che è una delle mie grandi passioni. Anche se sono uno, come amo definirmi, “prestato agli stracci”, ho delle manie, delle passioni, delle ossessioni, e una di queste è il cinema. Quindi dopo il cinema andavo in bottega da mio padre. Il negozio di mio padre si trasformò poi da negozio di tessuti in una boutique. In realtà lavoravo in negozio perché era quello che mi piaceva fare. Scegliere i capi da vendere, incontrare la gente. Mio padre morirà nel giro di sei mesi per un cancro al polmone. Ma questa figura così importante nel mio cuore è sempre presente. Lui è stato ed è quello che mi ha fatto amare, alla sua maniera, tessuti e stracci».
Dalla bottega alla sua prima collezione.
«La mia prima collezione si chiamava Piano piano, dolce Carlotta che prende spunto dal titolo di un film di Robert Aldrich, con la mia attrice preferita che è Bette Davis. Quindi un omaggio al cinema e alla mia grande ossessione per il mondo del cinema. Alla fine la sfilata è un contenitore di tutte le mie più grandi passioni: arte, coreografia, scenografia, la musica e la poesia. E naturalmente gli abiti. Gli abiti che alla fine sono davvero la rappresentazione di quel racconto. Una sorta di canovaccio che io discuto coi miei collaboratori che lavorano con me e non per me. Il lavoro duro di sei mesi che si condensa in 10 minuti di una sfilata. E lì ti giochi tutto».

«Che analogie ci sono rispetto a quanto raccontato da Antonio nel mondo della moda con il mondo delle auto?»
Flavio Manzoni coi bozzetti delle Ferrari «È bellissimo e emozionante quando una macchina viene svelata al pubblico dopo due, tre anni di lavoro», risponde Manzoni. «Vedere il pubblico che si sorprende. Cercare di capire come quell’auto verrà percepita, capita. Perché le macchine sono come tutti gli oggetti che creiamo: sono delle storie. C’è una frase di Edison che mi piace moltissimo dove lui parla del genio, ma che potremmo usare anche per il creativo, per il designer: “Il genio è uno percento di ispirazione e il novantanove percento traspirazione”. Alla fine il lavoro del designer è proprio questo, tanto, tanto lavoro e tanti sacrifici».

«Lavorare con Kenzo. Come è andata?» domanda ancora Stefano Tura allo stilista algherese.

«Faccio questo mestiere perché sono la prova provata che tutto può accadere. Lavoro con grande difficoltà perché decido di lavorare, operare, in Sardegna. Quindi il mio studio è ancora ad Alghero, anche se ho una mia sede a Milano, ma questo non vuol dire niente. Durante le sfilate in prima fila ci sono sempre giornalisti, addetti ai lavori e le signore della moda. In qualche modo queste signore notano che c’è un pazzo che fa delle cose che le incuriosisce. Tra queste ce n’è una che va a caccia di talenti. Lei è incaricata da un signore che si chiama Arnault. Questa signora individua in me quello che potrebbe diventare l’erede della Maison Kenzo. Kenzo che manca ormai da 10 anni perché si è ritirato. La signora, che dopo scopro essere una delle donne più temute nel mondo della moda, mi invita a pranzo per una chiacchierata di lavoro. Mi chiede se avevo tempo e voglia di occuparmi della Kenzo. Io da sardo incosciente rispondo di no, che non era possibile. Lei rimane abbastanza sconvolta dal mio rifiuto, un rifiuto per lei era inconcepibile. Lei insiste e io decido di parlarne con mia moglie Patrizia. Decidiamo quindi di intraprendere questa nuova avventura in Kenzo. Mi ci è voluto un anno da quel momento per far capire a loro il mio metodo di lavoro. Io che sono uno abituato a fare tre cose, lavorare, lavorare, lavorare, il fatto che io arrivassi lì alle otto e mezza del mattino li sconvolgeva; abituati com’erano a iniziare a lavorare di pomeriggio. Dopo i primi tre anni sono diventato il direttore creativo di tutta la Maison. Otto anni di crescita personale e professionale impossibili da realizzare in altre realtà del mondo. Quando al rinnovo del contratto mi chiesero di trasferirmi a Parigi rifiutai. Avevo deciso di riprendermi la mia vita e proseguire per la mia strada».
Il designer nuorese, che dopo la tesi iniziò a lavorare in Lancia, così racconta i suoi esordi nella casa del cavallino rampante.
«Nel 2006 decido di lasciare il gruppo Fiat, con un’offerta del gruppo Audi come direttore del Centro Stile Lamborghini. Contratto tedesco e azienda italiana. Due mesi a Monaco per capire come lavorano i tedeschi. Dopo un mese succede una cosa imprevista: i due gruppi Audi e Volkswagen si fondono insieme. Mi propongono di andare in Germania a occuparmi di Volkswagen. Accetto questa sfida dando il mio contributo in termini di restyling di alcuni modelli come la Golf e la Polo. Dopo tre anni ricevo una telefonata dalla Ferrari: Montezemolo voleva incontrarmi perché voleva creare un centro stile alla Ferrari. Prima di me le Ferrari venivano disegnate fuori da Maranello. Iniziai col scegliere il mio team per il nuovo centro stile Ferrari e da quel momento ebbe inizio questa mia nuova avventura».
L’incontro di questi due mondi si chiude con un applauso che è come un abbraccio. Un ringraziamento a chi come loro è riuscito, con intelligenza e tenacia, a vestire la propria isola di stile, fascino ed eleganza.
Gioele Dix insieme a Elvira Serra Domenica pomeriggio a Binzadònnia. L’incontro è con quello che in molti conoscono per essere uno dei comici più divertenti di Zelig ma che in pochi sanno essere un artista davvero completo.
Gioele Dix è attore di teatro, doppiatore e anche scrittore. A L’Isola delle Storie, accompagnato da Elvira Serra, presenta il suo ultimo libro: Quando tutto questo sarà finito.
«Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali. È un libro che sto accompagnando come un figlio. Questo è un libro per me speciale », racconta Dix. «Probabilmente è il libro che non ti aspetteresti mai da un comico. Sono pagine in cui ho dato voce ai ricordi di mio padre. Il racconto, che spazia tra il 1938 e il 1945, mette insieme la Storia con quella delle piccole storie vissute da un ragazzo che era appunto mio padre. A un certo punto della mia vita ho sentito la necessità di far parlare mio padre. Farmi raccontare la sua storia per poterne conservare la memoria con la scrittura. È la storia di un ragazzo che scopre a 10 anni la propria diversità. La diversità di una famiglia di religione ebraica. Una diversità che gli impedisce di andare a scuola con i propri amici, che impedisce a suo padre – mio nonno – di conservare un proprio lavoro». «Quando hai chiesto a tuo padre di raccontarti queste cose come ha reagito?» «Innanzitutto ci sono due elementi che fanno speciale la scrittura di questo libro: l’io narrante Vittorio - mio padre - e suo padre Maurizio. Non è stato affatto semplice scriverlo. I primi giorni sono stati terribili, trattandosi di cose così vere, così reali. Si trattava di un materiale troppo vivo. Lo sentivo troppo mio. Avevo anche un certo pudore nel cercare di farlo parlare. Mio padre poi è un uomo di poche parole. Ci sono voluti otto anni per raccogliere tutti i suoi racconti».

Il dialogo tra Gioele e Elvira si trasforma presto in un bellissimo monologo dove Dix oltre a raccontare nel dettaglio alcuni contenuti del libro farcisce la narrazione di aneddoti divertentissimi, per poi concludere in finale con una barzelletta.

«C’è questo ragazzo che vive con la mamma. Lui ha 38 anni è scapolo e lei gli ha bocciato tutte le pretendenti. Compleanno, festicciola di compleanno lui e lei. C’è un pacco che contiene il regalo che la mamma gli ha voluto fare. Sono due cravatte una verde e una rossa. “Hai visto? Ti piace?” chiede la mamma. “Si grazie mamma” - “Sicuro che ti piacciono?” - “Si grazie mamma”. La mattina il ragazzo deve andare a un convegno. La madre gli fa trovare la colazione pronta e lui si presenta vestito elegante con la cravatta rossa. “Hai visto mamma? Ho messo la cravatta rossa.” E lei fa: “Lo sapevo che la verde non ti piaceva”».
Andrea Cedrola e Andrea Delogu Ultimi scampoli di Festival. In Piazza Mesubidda il prologo dedicato a Gabriel García Márquez – 12 racconti raminghi – affidato ad uno strepitoso Marco Spiga introduce, per “Altre prospettive”, Vincenzo Latronico nell’incontro con Stefano Tura, Andrea Delogu e Andrea Cedrola.
«C’è una questione che vorrei portare su questo tavolo.», dice Latronico. «Un problema della letteratura. Potremmo dire in definitiva che i romanzi sono delle bugie. Raccontano di qualcosa che non è mai stato detto e di qualcosa che forse non è mai esistito. Parlando di questi libri vorrei affrontare proprio questo tema. Partirei proprio con Stefano Tura».

«Io faccio il giornalista di cronaca. Sono nato facendo il giornalista di cronaca nera e giudiziaria, quando non c’erano condizionamenti e esigenze diverse da parte della televisione e c’era anche più tempo per approfondire. Oggi questo tempo non c’è e proprio per questo mi sono ritrovato ad avere molto più materiale sui fatti di cui mi sono occupato di quanto avessi la possibilità di raccontare». Lo scrittore e giornalista bolognese così racconta il motivo che lo ha spinto a scrivere questo suo libro. «Ho voluto sperimentare la possibilità di scrivere dei romanzi che fossero ispirati da fatti reali di cui mi sono occupato, ma rendendole opere di fantasia. Tu sei il prossimo nasce dal caso della scomparsa di Maddy McCann in vacanza coi genitori inglesi in Portogallo. La prima cosa che mi ha colpito sono le modalità in cui questo “rapimento” - se di rapimento possiamo parlare – si è consumato. La seconda cosa che mi ha colpito è che i genitori non vengono mai messi in discussione. Cosa che di solito avviene di continuo in casi come questo. Sono passati sette anni e ancora adesso Scotland Yard sta spendendo soldi pubblici per cercare una bambina che a distanza di sette anni difficilmente verrà ritrovata. Tutto questo mi ha colpito. C’è qualcosa che in questo fatto di cronaca non è chiaro. Non sono riuscito a capire cos’è. Sto cercando ancora di capirlo e nel frattempo mi è venuta l’ispirazione per scrivere un romanzo. In questo libro c’è una bambina inglese. L’ambientazione è quella della riviera romagnola che conosco bene per essere il posto di mare dove andavo da bambino e ci vado ancora adesso. Tutto questo mi da la possibilità di raccontare la difficoltà delle indagini e i conflitti tra i due corpi di polizia; quella italiana e quella inglese. Poi tutto ovviamente si ferma lì. Da lì in poi inizia la mia fantasia la mia creatività, creando un intreccio di cose ed esperienze, anche nella mia vita di giornalista, e un probabile finale che potrebbe avverarsi – semmai verrà risolto il caso - nella storia reale».
Andrea Delogu «Questa idea che l’invenzione possa far riflettere o mettere in luce fatti realmente accaduti, che sembra quasi un paradosso, mi sembra anche uno degli elementi centrali nel vostro romanzo: La collina», interviene Latronico rivolgendosi agli autori del libro: Andrea Delogu e Andrea Cedrola «È la storia di una bambina che nasce e cresce negli anni ’80 all’interno di una comunità per tossicodipendenti. Gestito da un uomo estremamente carismatico che nel libro ha il nome di Riccardo Mannoni. Il padre di questa bambina – Ivan – è stato uno dei primi ospiti di questa comunità. Nel tempo ha guadagnato credibilità all’interno della comunità tanto da diventare una sorta di braccio destro di Mannoni. Una storia dove si svilupperanno diverse storie, anche di violenze subite e maltrattamenti».

«Nasce dall’esigenza di raccontare un punto di vista che non era mai stato raccontato». Andrea Delogu così racconta la genesi del romanzo. «Una storia che tutti conoscevano attraverso i giornali. Tutti sapevano che cosa era questa comunità, ma nessuno sapeva cosa succedeva a quei ragazzi rinchiusi lì dentro. Per me che ho vissuto un'infanzia felice all’interno di quella comunità, e in qualche modo spensierata, mentre qualcuno nel frattempo veniva rinchiuso per un mese dentro a un tino. Questa era una comunità dove lo Stato ha girato la faccia. Questa era una comunità della violenza e dei ragazzi in catene. Dei suicidi di cui in tanti hanno taciuto. Il metodo della violenza non funziona e non funzionerà mai». Il libro che evidentemente racconta la vicenda di San Patrignano nasce da un bisogno. Nel 1994 durante il processo a Vincenzo Muccioli, Andrea Delogu sente la necessità di scrivere questa storia. Andrea Cedrola che insieme alla Delogu ha scritto il romanzo aggiunge: «Per tutti gli anni '80 e '90 la tendenza è stata quella di ignorare tutto questo. Nonostante quello che abbiamo raccontato in questo libro, a distanza di sei mesi dalla sua uscita, c’è stato un silenzio che mi ha lasciato perplesso. La maggior parte dei giornali ha reagito come se si trattasse di qualcosa accaduto tanto tempo fa. E si chiedevano che senso avesse tirarlo fuori. Che senso aveva parlare di “Riccardo Mannoni” che ormai era morto…» Ma chi era Mannoni? Andrea Delogu ne traccia un profilo non proprio aulico: «Dovremmo chiederci quali erano le vere intenzioni di Mannoni all’inizio del suo percorso. Chi era davvero. In realtà leggendo il nostro libro, e interessandomi particolarmente alla vita di Mannoni, non riesco a vedere tutta questa bontà nel partire con questo progetto. Vedo solo un uomo che già da prima voleva avere del potere. Lui non lavora per i soldi, lui lavora per il potere. Portare la sua comunità a crescere a tal punto da trasformarla da comunità in Comune. E tutto questo per entrare in politica. Un potere che non ti da più solo denaro, ma un potere che ti da il potere di decidere della vita e della morte di milioni di persone». Di Gavoi, dell’Isola delle Storie, amo anche questo. La letteratura diventa un modo per entrare nella vita degli altri. E quando entri nella vita degli altri, in qualche modo, la vita degli altri diventa la tua.
Romain Puértolas Appuntamento finale. Sul palco, a fare da quinta, ci sono le canne e fichi d’india in acciaio di BAM design. Un palco che omaggia Grazia Deledda. Il duo di creativi nuorese anche quest’anno ci ha sorpreso con le sue installazioni disseminate per tutto il paese.
A chiudere il festival, proprio su quel palco a Sant’Antiocru, un caso letterario che ha i numeri dei record: per “Storie di altri luoghi”, Giorgio Vasta incontra lo scrittore franco-ispanico Romain Puértolas.

«Buonasera Gavoi, grazie mille per stare qui stasera. Non parlo italiano, ma Juana lo farà per me».
Esordisce così, con un accento che ci fa capire subito quale sia la sua provenienza. Juana Sommermann Weber al suo fianco tradurrà in italiano ogni passaggio di Puértolas. Il titolo del libro di Puértolas sembra il titolo di un film di animazione per ragazzi: L'incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea.
«Un libro che è l’esordio per Puértolas », spiega Giorgio Vasta. «È il primo che pubblica, ma in realtà lui ne ha scritto altri otto. Se volessimo fare un’analisi narrativa del titolo di questo libro, ci renderemmo subito conto che è prepotentemente una specie di promessa di racconto. C’è da subito un riferimento al viaggio. Una condizione strutturale delle narrazioni stesse. Il riferimento intenzionalmente ambiguo al fatto che è incredibile. Noi cerchiamo in una storia il fatto che ci riesca a raccontare, in modo persuasivo, qualcosa a cui, se fosse qualcun altro a raccontarcelo, non crederemmo mai. E poi ci sono due elementi: uno è questo fakiro col turbante in testa che è il protagonista della storia, che rimanda a un immaginario indiano. L’altro elemento è uno degli emblemi della contemporaneità: il logo dell’Ikea, che traspare anche dai colori giallo e blu della copertina. Quello che voglio chiedere a Romain è come gli è venuto in mente di prendere un Indù, un fakiro, e di metterlo in contatto con un contesto come l’Ikea?».
Giorgio Vasta e Romain Puértolas «In realtà tutto ha avuto inizio dal titolo. Di solito il titolo arriva alla decima pagina. Ero a Parigi in panetteria a comprare il pane. A Parigi abbiamo la fortuna di fare lunghe file per un sacco di cose. Sono quei momenti, quei tempi morti, che utilizzo per scrivere i miei libri. Mi è venuto in mente questo titolo e mi sono chiesto: e ora che ci faccio con questo titolo? Il fakiro è relativo alla mia vita passata, in cui mi dedicavo a svelare i trucchi dei maghi e dei ciarlatani. E lo facevo su Youtube. Lo facevo anche coi fakiri indiani: dal camminare sui carboni ardenti, al trafiggersi la lingua con un chiodo, sino a trasformare l’acqua in vino. E poiché nella casa dove abito c’è un armadio dell’Ikea mi sembrava carino infilarcelo dentro. C’è proprio un trucco che fanno i fakiri che consiste nel mettere un bambino dentro a una cesta di vimini per poi trafiggere la cesta con delle spade. Il bambino grida e perde sangue da dentro la cesta. Poi si apre la cesta e il bambino è sparito per poi comparire a cento metri di distanza».

Puértolas entra nel profilo del protagonista indiano. «Il personaggio ha preso molto dalla letteratura picaresca spagnola e dalla letteratura francese. Il profilo che volevo per lui era che fosse una persona molto intelligente. Uno capace, con i suoi trucchi, di manipolare la mente degli altri. Mi piaceva l’idea di mettere fuori dal proprio contesto una persona di questo tipo. Uno che vede l’Europa con gli occhi di una persona che europea non è».
Romain Puértolas con Juana Sommermann Weber

PICOLE PIAZZE ALL'IMPROVVISO

di Lorenzo Amurri
Lorenzo Amurri

Arrivo di notte. Buio pesto tutt'intorno e, in cielo, una distesa di stelle che sembra non avere fine.
Al risveglio, mentre percorro il tratto di strada che mi separa dal paese, incontro un lago circondato da colline in parte coperte da verdi foreste.
Mi fermo. Immagino draghi, cavalieri e maghi, e rimarrei lì a fantasticare su magie sospese nel tempo.
Arrivo in paese e subito quell'atmosfera magica si estende alla pietra delle case, ai vicoli che si arrampicano senza un ordine preciso, alle piccole piazze che compaiono all'improvviso, e al fiume di persone che silenzioso scorre ovunque e lo anima, come sangue nelle vene.

Ed è proprio l'interesse, il coinvolgimento, la partecipazione e la fame di letteratura della gente a colpirmi, oltre alla calorosa accoglienza.
Ho passato tre giorni davvero emozionanti in quest'isola piena di storie.
Grazie Gavoi.

TRE GIORNI DI PENSIERI E DI LETTURE

di Zita Dazzi
Lorenzo Amurri

A Gavoi sono arrivata di notte, senza sapere bene nemmeno dove ero, intorno solo grilli e rocce, cespugli odorosi di mirto e stelle.
Mi sono svegliata in un albergo che sembrava uno chalet di montagna, lago e panorama compreso. Una prospettiva diversa da cui guardare la Sardegna, scoprendo il suo cuore e la sua asprezza, la sua grandiosità nascosta e le rughe sorridenti sulla faccia della gente.

Tre giorni di parole, incontri, sguardi di gente attenta con le orecchie e col cervello, tre giorni di pensieri e di letture, scoperte e anche risate, un bicchiere di vino in mano e un pezzo di pecorino in bocca. Scoprire che non c'è solo mare e cielo, in Sardegna, ma cultura e orgoglio, gente che si fa tre ore di macchina per andare ad ascoltare la storia di un libro o di un autore.
A Gavoi si lascia un pezzettino di anima, quando si va via.
E si spera sempre di tornare.

PHOTOGALLERY

  • Savina Dolores Massa al balcone insieme a Caterina Bonvicini
  • Maria Luciani - Cordas et Bentu
  • Mariano Cirina legge Fantasmi del Passato di Marco Vichi
  • Antonio Marras
  • Riccardo Chiaberge e Stefano Tura
  • Antonio Rovaldi
  • Elena Morando
  • Cezar Paul-Badescu con la traduttrice Irina Turcanu e Vincenzo Latronico
  • Isola delle Storie
  • Marcello Fois
  • Chiara Valerio e Walter Siti
  • Paola Soriga e Caterina Bonvicini
  • L'assessore regionale alla Cultura, Claudia Firinu, e Marcello Fois
  • Olivia La Pegna
  • Walter Siti
  • Marcello Fois e Chiara Valerio: Mirto con l'autore
  • Uno dei momenti più attesi del Festival: Mirto con l'autore
  • Akok’Ensemble
  • Giulia e Francesca. Ufficio Stampa Glass-Studio
  • Marco Spiga
  • Vincenzo Latronico
  • Mariano Cirina
  • Antonio Rovaldi, Marcello Fois e Chiara Valerio: Mirto con l'autore
  • Chiara Valerio
  • stefano tura
    Stefano Tura
  • Il balcone più famoso di Gavoi
  • Stefano Tura e Mario Dondero

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