Angelica Grivel

SOFFOCO

I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL

Maledetti botti di ferragosto. È davvero sorprendente, come ogni frammento di vita ordinaria sia fatuo e provvisorio, e che sia sufficiente un attimo compiuto a trasformarci nell'altro che compiangiamo sempre da lontano.

Ho capito che solo quando si vive il pericolo, si comprende fisicamente la portata del turbinio di sensazioni che lo accompagnano. E mi è anche chiaro che elaborare l'imprevisto possa essere utile per cucire corazza laddove manca protezione.

Malgrado l’ora tarda, è fatto curioso che proprio quella notte non fossi totalmente sopita. Penso che la causa del mio dormiveglia risiedesse nel libro irresistibile poggiato sul comodino; mi sembrava di sentire le sue pagine fremere, come impazienti di essere schiuse a ulteriore lettura. Non ci badai.

Pensavo che fosse una mia proiezione mentale anche quel fil di fumo che aleggiava per la mia stanza, senza che io lo vedessi, e rimandava al mio olfatto il sentore di fuoco d’artificio. Chiusi gli occhi, ma il mio tentativo di ignorare quell’odore si faceva via via più vano, mentre il miasma stesso diventava sempre più penetrante e denso. Non percepivo allarmi, ma nella mia testa deploravo chiunque avesse avuto la grandiosa idea di allestire spettacoli pirotecnici così vicino alla mia casa. ‘Maledetti botti di Ferragosto. Sicuramente li hanno accesi in spiaggia e il vento trasporta il tanfo sin qui. Che fastidio.’

Il gelo della paura ostruì definitivamente il sonno solo quando sentii il nitido, forte avvicendarsi di tre tonfi brevi e sonori, come di libri caduti a terra. Ammutolii ogni pensiero, acquattata sulla sponda del letto più vicina al muro. Seguì un rumore che pensavo corrispondesse a passi leggeri e affrettati, e per un attimo fantasticai sull’ipotesi che potesse trattarsi di un animale selvatico irrotto dentro casa. L’idea non fece che accrescere la morsa di tensione che progressivamente stringeva il mio corpo.

Il mio soffuso immaginare ebbe una brusca evoluzione in realtà quando percepii attiva la presenza sicura di mio padre, destato da un presentimento. Gli sentii bofonchiare, in un rantolo confuso, un ‘ma che succede’ interrogativo, e ascoltai il suono del suo approssimarsi rapido e circospetto alla cucina.

Fu in quel fatale istante che vidi il tempo sfrecciare precipitosamente davanti ai miei occhi, inafferrabile come lo stato di emergenza che urgeva sempre più incombente. A nulla e a nessuno fu concesso più alcun indugio. Il fumo diventò improvvisamente concreto, vivo e soverchiante, e assunsi la piena convinzione che nascesse non fuori, non in spiaggia, ma lì, dentro la nostra casa. Nella nostra cucina, la lavastoviglie aveva preso fuoco. ‘Uscite tutti fuori di qui, adesso’ disse mio padre con voce concitata e dura, che non tradiva tuttavia alcuna forma di timore.

Mia madre si alzò con uno scatto attonito, il bel viso logorato da stupefatto sconforto. Presi per mano mio fratello Riccardo, che taceva, forse inconsapevole della gravità della vicenda, e lo trascinai in giardino. Furono ore plasmate solo d’angoscia incredula. Sul momento, rifiutai di accettare che il fatto stesse accadendo proprio alla mia famiglia e alla mia casa. Nell’immediato, non volli fronteggiare la sconvolgente constatazione del fatto che mia madre, mio padre, mio fratello ed io fossimo stati a così esigua distanza dalla morte, data la consistenza corposa e soffocante di quel fumo nocivo. Grata, guardai con occhi vitrei quella squadra di sei vigili del fuoco che agivano per estinguere le fiamme, alle due del mattino di giovedì 16 agosto, bardati di bombole d’ossigeno e maschere. Mantenni saldo il governo di me, in modo da non nutrire mai la mia paura, che si arrestò quasi immediatamente, cristallizzandosi in una sensazione di costante apprensione allarmata. Mio padre, lordo di fuliggine come uno spazzacamino delle fiabe, con spirito pugnace e teso, non cedeva ad alcuna forma di crollo fisico e emotivo.

Tuttavia, non riuscii a trattenere una contrazione di disagio quando lo sguardo cadde su quello che ormai era diventato il cadavere annerito e inerte della lavastoviglie, con sopra ancora tutti i piatti, il decoro di ciliegie rosse e il contorno blu cobalto totalmente imbrattati come di pece nera, gli irrecuperabili bicchieri e le scodelle aduste, le posate, distinte per colore a seconda di chi le utilizzava, impiastricciate di un indelebile nero nemico, alcune in frantumi, altre orribilmente liquefatte. La rappresentazione plastica della iattura che riesce a svellere la quotidianità data per assodata.

Nelle tre giornate che seguirono, si rese necessario l’intervento di un’organizzazione specializzata in decisive operazioni di bonifica. Quattro ragazzi volenterosi, capeggiati da due donne esperte, si affaccendavano in ogni stanza con fare sbrigativo e radicale. Subito dopo l’incendio, la consistenza del vapore scuro si era presto condensata in uno strato pastoso di polvere nera che, sebbene non fosse troppo difficile da rimuovere, serpeggiava insinuante in ogni anfratto della casa. Il processo di depurazione culminò nell’utilizzo dell’ozono, pompato prepotentemente per lunghe ore in una casa ancora bisognosa del lavacro definitivo. L’accesso ai locali della casa fu finalmente consentito. Lo stato di emotività di noi quattro era ancora profondamente provato da sensazioni di estenuato turbamento, e nessuno aveva sciolto quel duro grumo di paura che occupava lo stomaco.

Dopo i primi attimi di titubanza sospesa, eccoci, noi quattro, a ricomporre le disarmonie e a rimarcare il territorio, alla ricerca di una gratificazione tramite il lavoro di cesello.

L’elaborazione del lutto.

Angelica's cover courtesy of Marta Cappai


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